Vi proponiamo la lettura di un giovanissimo GPO, appena 24enne e non ancora assunto da Tuttosport (sarebbe stato assunto dopo questo pezzo), inviato a Castellania per i funerali del Campionissimo. Era il 5 gennaio 1960 e la sua scrittura era già quella di un assoluto fuoriclasse.
Come sono belle queste sulle colline, con il sole che gioca sulle loro linee stagliate nitide sul cielo azzurro, con la neve che le spruzza qua e là, a chiazze miracolosamente conservate dal gelo, con i filari ordinati, i casolari severi, gli alberi raggrinziti a proteggersi da un inverno benigno ma sornione.
Sono belle e bellissime, e su di esse abbiamo passeggiato questa mattina con Fausto Coppi. Per lui, era l’ultima passeggiata, quella più importante. Chiuso in un feretro, andava verso il cimitero di San Biagio, che è poi nient’altro che un palmo di terra cintato da un muro antico e spesso e occupato da cento tombe. Ma tutto è lillipuziano su queste mirabili colline. Castellania, il paese natale di Fausto, pare messo lì da Dio per distrazione, una manciata di case, quattrocento anime in pochi muri. Chissà mai quale segreto spinge gli uomini a vivere quassù. Forse, un amore della terra così profondo che, se tutti lo capissero, rinnegheremmo noi stessi , come ci ha forgiati l’alito della civiltà e del progresso, imitazione degenere dell’alito con cui Dio diede vita al primo uomo.
Che colline! E che passeggiata, con il sole che ci scaldava il sangue. La rugiata diventa acqua, e scorrevano per le straducole tatuate dalle gomme della auto, rivoli rumorosi, come se fosse primavera. Erano le strade su cui Coppi pedalò bambino. La gente era ai lati, tanta gente, un’assurdità per un paese così piccolo, raccolto al fondo di una valle a cui si arriva solo salendo da Villavernia, salendo molto, sino a che la strada è una mulattiera e una macchina con il motore guasto può significare il caos.
In mezzo alla gente (quanti erano? Ventimila, forse. Di certo molti, e avremmo voluto che qualcuno di coloro che ritengono lo sport un fenomeno folle di esaltazione fosse lì per darci una spiegazione di tanta tristezza), in mezzo alla gente passò il feretro di Coppi, portato a spalla da corridori e seguito da parenti che lo sguardo inquisitore per necessità di mestiere dei nostri colleghi voleva discriminare, tenendo conto dello stato civile uno, dell’affetto l’altro. Noi ci accontentammo di radiografare il feretro, e dentro ci vedemmo Coppi, lungo e immane come ci era apparso sul letto di morte.
Poco prima l’avevamo salutato, e il suo viso ci era apparso per l’ultima volta dietro il vetro della finestrella aperta sul feretro: era un viso tutto diverso da quello visto nella camera ardente di Tortona, un viso bianco e senza forme, quasi che naso e orecchi e occhi fossero stati appiccicati sulla carne da poco. Coppi non era più lui, forse perché lui era sempre stato vita, e vita prepotente, sforzo atletico ineguagliabile. Di botto, ci assalse nella camera della sua povera e sobria casa di Castellania il pensiero di lui com’era, e il contrasto che sino a quel momento non avevamo avvertito, o avevamo respinto, ci assalì in tutta la sua crudezza.
Che Fausto fosse davvero morto, fosse avviato alla pace, all’immobilità che tanto contrasta con il suo corpo fatto apposta per essere movimento e forza, ce lo dissero la folla, i pianti, persino la mesta consuetudine delle strette di mano forti e prolungate con cui ci salutiamo allorché, scovando vecchie amicizie in circostanze simili, proprio nulla abbiamo di importante da dirci al di là del silenzio.
Coppi passò in mezzo alla gente, e parve fendere la folla che un tempo, nelle corse, gli schermava la strada, chiedeva un po’ di lui sporgendosi fi no davanti alla bici, e poi si beava nel vento lasciato dal suo passare. Ecco, quella era l’ultima corsa di Fausto, primo e solo come sempre. Guardammo Gismondi, che Coppi strappò dalla fame e offrì al mondo, forte di speranze e di calorie. Gismondi faceva il gregario, ancora una volta, teneva indietro la folla, ordinava l’alt ai portatori delle cinquecento corone, ridava l’avvio al corteo. Il feretro passò davanti all’auto Bianchi targata MI 50882, l’auto che seguì Coppi in cento gare e in cento vittorie.
Chiedemmo a noi stessi, che siamo ammaestrati a diffidare della retorica, il permesso di essere sentimentali. Coppi disputava l’ultima gara, lassù c’era il riposo, con il babbo e con Serse e con Dina avrebbe iniziato un dialogo che noi non possiamo capire. Qualcuno teneva in mano dei fi ori, e non sapeva che farne, essendo tutto il corteo già sepolto dai fi ori. Nessuno si vergognava del pianto, tutti erano lieti e orgogliosi della loro tristezza.
C’era chi parlava di sfortuna. I vecchi di Castellania dicevano che Fausto aveva pagato i libri e le tasse ai bambini del paese, perché potessero andare a scuola. Le fi glie di Maria salmodiavano, il corteo era lungo, infinito, il feretro pareva sobbalzare sulle spalle dei portatori come un sughero nel mare in tempesta.
Macchine con le targhe di tutta Italia intasavano la strada. Si parlavano tutti i dialetti, molti erano gli stranieri. Un amico mi rivolse una domanda che significa tutto: «Riesci a renderti conto di cosa significava Coppi per tutta questa gente?». Fu in quel momento che il mito prese corpo, e si incarnò in un uomo dal naso lungo e dalle gambe di caucciù: un uomo che, per essere sconfitto, doveva essere assalito a tradimento.