Lo chiamavamo l’Ammiraglio. Perché sapeva come guidare, dirigere, condurre, sapeva come gestire, organizzare, allestire, sapeva come dare e tenere una rotta, sapeva anche come cambiarla, che fosse un galeone o una nave, nel suo caso una redazione. E’ vero che Franca, la moglie, lo chiamava Pepi. Ma era un nomignolo troppo intimo, troppo familiare. Piuttosto lo chiamavamo, più semplicemente, Castel.
Stamattina presto è morto Giuseppe Castelnovi. La famiglia del ciclismo e la grande famiglia del giornalismo sportivo non lo hanno conosciuto, o forse lo hanno dimenticato, e certamente lo hanno trascurato. Perché l’Ammiraglio era un caporedattore vecchia maniera, di quelli che abitano le redazioni, presidiano le pagine, controllano le tipografie, di quelli che disegnano gli spazi e designano gli autori e dettano i tempi, di quelli che non firmano mai però è come se li firmassero tutti, di quelli cui affideresti anche tuo figlio o tua nipote da portare all’asilo.
Aveva 91 anni, l’Ammiraglio, e aveva navigato per tanti anni alla “Gazzetta dello Sport” di Candido Cannavò. E di SuperCandido era l’uomo di fiducia assoluta. Numeri unici, pagine speciali, piccole enciclopedie, allegati e supplementi: ogni volta che c’era da approfondire, allargare, allungare, e anche incuriosire, divertire, svariare, diversificare, giocare, Cannavò incaricava Castelnovi. Lo fece anche per qualche suo libro. E preciso, e meticoloso, e puntuale, l’Ammiraglio aveva il diritto di richiamare il nostro vulcanico direttore a una correzione, a un perfezionamento, a una limatina. E davanti alla innata parsimonia verbale dell’Ammiraglio, perfino Cannavò si adeguava. Fra loro bastava uno sguardo.
Genovese (quasi, di Rossiglione) e genoano (da giovane, per anni, tutti i santi giorni, anche il lunedì quando erano di norma bagni e massaggi, aveva seguito il Grifone), umile e modesto in un mondo di primedonne, novecentesco nel suo artigianato e nel suo mestiere, l’Ammiraglio amava soprattutto il ciclismo. Durante il Giro d’Italia era il capo della redazione interna. Un giorno – avevamo ormai raggiunto lo zenith dell’amicizia – mi confidò che quando il capo del ciclismo inviato al Giro d’Italia, l’esuberante e spavaldo stakanovista Angelo Zomegnan, aveva dimostrato di voler dirigere le pagine anche da fuori, lui entrò sparato da Cannavò (facile: la porta era sempre aperta) e gli comunicò che, stando così le cose, avrebbe subito rinunciato. Cannavò intervenne immediatamente a gamba tesa e l’Ammiraglio riprese il comando delle operazioni.
In quelle tre-quattro settimane di Giro d’Italia, l’Ammiraglio si trasferiva dalla sala dei capiredattori (lui lo chiamava l’acquario) alla redazione del ciclismo con quei redattori (uno ereditato dal calcio, uno dai motori, uno dalle varie, uno dalle redazioni fuori Milano… più la grafica, di solito Simona Voghi: lui la chiamava affettuosamente Armata Brancaleone), e campava dalla riunione del mattino alla chiusura serale impostando e impastando, ordinando e programmando, curando e arricchendo, correggendo e titolando. L’unica concessione era il pranzo verso le due di pomeriggio, in mensa (lui la chiamava affettuosamente mangiatoia). E l’unico vezzo, si fa per dire, era un mezzo foglio di carta rosa piegato sotto il colletto della camicia, un po’ con funzione antisudore e un po’ come rituale taumaturgico.
All’Ammiraglio piacevano le storie prima che i quotidiani si aggrappassero alle storie per non naufragare, e piacevano le vignette prima che “la Repubblica” e il “Corriere della sera” le issassero in prima pagina, e piacevano i numeri prima che tutti gli altri li spacciassero come loro invenzione o intuizione o genialata, e piacevano i trafiletti e i boxini, i pallini e le rubriche prima che gli art director venissero considerati le archistar dell’impaginazione. E lo faceva da competente. Sapeva quello che gli altri scrivevano. E dove non arrivava la sua memoria storica, c’era il centrodocumentazione (lui lo chiamava l’archivio), di cui era uno dei massimi esploratori ed esperti, tant’è vero che prima lassù (in una soffitta) e poi laggiù (in uno scantinato) era venerato per la sua sapienza e la sua educazione.
Da pensionato, l’Ammiraglio si è finalmente dedicato a Fausto Coppi, di cui era cultore ed evangelista. Libri, almanacchi, calendari, agende, dizionari. Del Campionissimo conosceva strade e traiettorie, avversari e gregari, storie ed episodi, famigliari e amici, partiva da una ricorrenza e arrivava a un nuovo punto di vista calibrato anche su eventuali confronti. Conservava il gusto dell’almanacco. Sulla “Cuneo-Pinerolo” (editVallardi) del Giro d’Italia 1949 ha composto un esemplare libro-mosaico di contributi e collaborazioni, da fonti e angolazioni. Per “Una vita da gregario” (Sep) ha sublimato borracce e fontane come se fossero Alpi e Pirenei. Per “Ghisallo – cuore del ciclismo” (Sep) ha smosso il cuore perfino di un duro come Fiorenzo Magni.
Lucido, curioso, aggiornato, informato, e sempre appassionato senza mai mostrarlo, solo negli ultimi due mesi l’Ammiraglio ha mollato mappe e timoni. L’altro giorno, confinato in un letto al Fatebenefratelli, sembrava un passerotto. Se glielo avessimo detto, ci avrebbe subito invitato a scrivere un pezzo di 40 righe sui soprannomi ornitologici dai corridori. A cominciare dal suo Coppi l’Airone, poi Bahamontes l’Aquila di Toledo e Scarponi l’Aquila di Filottrano, Savoldelli il Falco, Chaves il Colibrì… e Castel il Passerotto. No, dai, lui era l’Ammiraglio.
Il funerale si terrà lunedì 27 alle 14.45, a Milano, nella chiesa di San Gioachimo, in via Fara 2,