Un uomo. Un uomo in bicicletta. Un uomo in gamba in bicicletta. Quello che ci voleva. Henry Smart. Lui, l’uomo in gamba in bicicletta. Irlanda, primo Novecento, il movimento Sinn Féin (We Ourselves, noi stessi) indipendentista, poi l’Ira (Irish Republican Army) militare. Henry, figlio di un altro Henry, gamba di legno, e di Melody, persa nell’alcol, e fratelli, e sorelle, tutti flagellati dalla miseria, cioè dalla fame e dal freddo, dalla assenza e dalla mancanza, dalla violenza e dalla morte.
La sua tremenda sopravvivenza, la sua dura infanzia, la sua stravolta adolescenza. Fino al giorno in cui la lotta al governo inglese gli richiese una bicicletta. La trovò appoggiata alla cancellata del Trinity College, a Dublino. “Bella grossa, una bicicletta protestante”. E se la prese. “Con la sella che mi calzava bene in culo”, “sorpassando le automobili e aggrappandomi dietro i camion”.
Tre anni su quella bicicletta rubata. “Sfidando il vento, la pioggia e le pallottole”, “io e il mio Cavallo Senzaculo”, “nell’oscurità più nera e più assoluta, su e giù per tutta l’Irlanda, in lungo e in largo”, “i tre anni che seguirono sparirono, ingoiati dal ronzio sordo e profondo della catena della bici”.
“Una stella di nome Henry” è il romanzo scritto da Roddy Doyle nel 1999, tradotto da Giuliana Zeuli, pubblicato da Guanda nel 2000 (432 pagine, 14,46 euro) e prestatomi da un amico (libri così, la tentazione di tenerseli). Quella sua bicicletta era ribelle, guerriera, clandestina, sapeva di sudore, fango, sangue, e silenziosamente accompagnava delitti, proteggeva vendette, maturava passioni, testimoniava dolori. Doyle seppe trovare le parole giuste, se non perfette: “Ero zuppo e mezzo sfasciato, ma con un calcio e una manata scrollai via lo sporco che colava dalla Senzaculo. Nell’istante in cui appoggiai il culo bagnato fradicio sulla sella bagnata fradicia, le nuvole si richiusero su sé stesse e si portarono via le stelle”, “Chiusi gli occhi e pedalai nel vento. Fu sempre quella la mia direzione, per quei tre anni, sempre la stessa: dritto nel vento”, “Mi arrampicai sull’ultima collina, una cazzo di salita ripida ripida, e poi giù per la discesa arrivai a gonfie vele in città”.
Perché, proprio adesso, la bicicletta di Henry Smart? Perché, proprio adesso, l’ho finalmente letta e conosciuta, il tempo si trova, e l’ho finalmente accarezzata e pedalata, meglio nottetempo. Perché anche se ha più di vent’anni, non ne avrà mai abbastanza per scendere di sella. Perché le biciclette sono le compagne, alleate e complici, della nostra esistenza, a volte fino all’ultima pedalata, fino all’ultimo respiro
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