Si potrebbe cominciare a leggerlo dall’inizio, anzi, da prima dell’inizio, dal distico: “Ah, ma io ti riconosco: tu sei quello che ha perso il Tour per otto secondi”, “No, signore, sono quello che ne ha vinti due”.
Si potrebbe cominciare a leggerlo dalla fine: “Tutti, prima o poi, moriremo. Se a me dovesse succedere a breve, avrò avuto l’incredibile fortuna di andarmene senza rimpianti. Forse un po’ troppo giovane, certo. Ma senza rimpianti. Ho vissuto la più bella vita che si potesse immaginare. Non trovo altre parole per dirlo”.
Si potrebbe cominciare a leggerlo a metà: in Colombia “all’epoca, quasi tutte le competizioni erano organizzate dalla criminalità organizzata locale. Giravano molti soldi, per non dire delle armi. Il risultato era quasi sempre combinato, ma la cosa più clamorosa era che la cocaina scorreva a fiumi al posto di qualsiasi genere di rifornimento. Ricordo un suiveur, di certo un narcotrafficante, che nel bagagliaio della sua vettura aveva diversi chili di polvere bianca a disposizione di chi la volesse: 10 dollari il grammo. Prezzi stracciati. La mattina da lui c’era sempre la coda. Non ci sarebbe niente da dire, sennonché molti di loro avevano già il numero di partenza attaccato sulla schiena”.
Si potrebbe cominciare a leggerlo anche a caso: “Una cosa incredibile accadde alla Parigi-Roubaix. Guimard, in un momento tranquillo della corsa, venne da me a chiedermi di andare in testa al gruppo, perché nessuno della squadra era davanti”, “Senza discutere, feci quel che mi aveva domandato”, “Erano stati i dirigenti della Castorama a chiedere che, quando cominciava il collegamento tv, in testa al gruppo ci fosse qualcuno della squadra, così che il loro marchio potesse essere ben inquadrato dalla diretta. Una simile pratica per me era rivoltante”.
“Eravamo giovani e incoscienti” di Laurent Fignon (alvento – Mulatero editore, 296 pagine, 21 euro), dall’inizio o dalla fine, a metà o caso, è tutto da leggere. Fra aforismi (Cyrille Guimard: “In una crono devi partire forte, a metà percorso aumentare la velocità e all’arrivo finire a tutta”) e giudizi (su Bernard Hinault: “Il giorno dopo fu protagonista di un improbabile, per non dire patetico, tentativo di fuga”), fra confidenze (“Avrei voluto che Guimard mi riscuotesse, che m’insultasse, che mi dicesse che ero uno stronzo, una mammoletta”) e confessioni (Milano-Sanremo 1988, nel finale con Maurizio Fondriest, “in discesa, facevo un po’ il furbo. Facevo finta di prendere male le curve, in modo che lui fosse obbligato a portarsi in testa e a tirare nei rettilinei. Ci cascò come un debuttante”), fra polemiche (Giro d’Italia 1984, crono finale di Verona, “durante una gran parte della mia prova, il pilota sull’elicottero della tv, senza dubbio preso dalla passione divorante per il suo mestiere, si divertiva a farmi delle riprese da così vicino che avrebbe potuto leccare il mio numero sulla schiena”) e retroscena (Tour de France 1989, vigilia della crono finale di Parigi, una ferita al soprassella, “la notte non ho quasi dormito. Mi faceva male anche senza muovermi. Sfinito e preoccupato, la mattina dopo avevo una faccia che faceva pena. Ma non era ancora niente: sono salito in bici e ho fatto un mezzo giro. Impossibile pedalare”), perfino minacce (a Serge Beucherie: “Chi cazzo eri tu, prima di diventare campione di Francia? Niente di che. Ecco, stasera tornerai a essere quello che sei sempre stato: niente di che”).
Fignon era “il Professore”. Per gli occhiali da vista, per la nascita a Parigi, per la proprietà del linguaggio, infine anche per i commenti televisivi. Scrisse questo libro nel 2009, già colpito da un tumore al pancreas, morì un anno più tardi. Aveva 50 anni.