Adora il nostro Paese, ma soprattutto ama dire quello che pensa, senza mezzi termini. Thibaut Pinot è tipo diretto, fiero e concreto. Per certi versi è anche molto anticonvezionale, come ha confermato in una lunga intervista rilasciata ai colleghi de “L’Equipe”, nella quale ha ribadito il suo amore per il nostro Belpaese e per la “corsa rosa” «…è l’ideale per il rilancio, mi attira e poi il fatto di essermi ritirato prima dell’ultima tappa 3 anni fa, quando potevo andare sul podio, resta per ora la più grande frustrazione della carriera».
Ama l’Italia, Thibaut, e non è più un mistero, dato che è da anni uno dei più assidui frequentatori di corse italiane e sulla pelle porta un tatoo nella lingua di Dante che «Solo la vittoria è bella». Ma il Pinot pensiero colpisce per come vede e intende lui il ciclismo, a costo anche di sollevare un polverone all’interno del gruppo che – ne siamo certi – non la prenderà benissimo. Ma non la prenderà benissimo nemmeno il massimo organismo mondiale del ciclismo, l’Uci.
In questa intervista è andato giù diretto, confidando di non subire controlli antidoping a sorpresa dall’estate scorsa e puntando l’indice su un ciclismo a due velocità. «Siamo sempre in un ciclismo a due velocità. – ha spiegato - Io non comprendo chi pedala sotto cortisone. Chi ha bisogno di un’autorizzazione a uso terapeutico, non dovrebbe essere ammesso a una competizione. Hanno vietato il Tramadol, dovrebbero fare lo stesso coi cortisonici. Quanto ai chetoni... Non se ne sa troppo: mi chiedo perché i corridori continuino a buttare le borracce nella natura ma si tengano le boccette di chetoni in tasca». Bello chiaro, non credete?