Monza. Via Cavallotti. La sua concessionaria. Il suo ufficio. Carte, documenti, faldoni, ma anche coppe, targhe, trofei. E fotografie incorniciate. Non mi mostrò quella in cui, stringendo una bindella, alleviava il dolore di una clavicola fratturata mentre cronoscalava il Santuario di San Luca. Mi indicò invece una prima pagina della “Gazzetta dello Sport”. Quel lunedì celebrava il trionfo finale al Giro d’Italia (primo, lui) e la conquista dello scudetto (primo, il Milan). A parte un box per il Milan e il calcio, tutta la vetrina era dedicata a lui e al ciclismo. Vero che il Milan si era già guadagnato il successo prima dell’ultima giornata, ma ancora più vero che il ciclismo, allora, rappresentava (e interpretava, e significava, e trascinava, e illuminava, e valorizzava) l’Italia. A forza di gambe e polmoni, dunque di sacrificio e coraggio.
Fiorenzo Magni, o piuttosto Magni Fiorenzo, come si diceva allora, prima il cognome, con quella solennità da atti ufficiali, anche per distinguerlo da altri Magni – Oreste, Secondo, Vittorio... – meno magni di lui. Oggi avrebbe compiuto cento anni. Non ci andò tanto lontano: ne aveva quasi 92 quando, stupendo ancora una volta tutti, si staccò il dorsale, anche lui ossidabile, vulnerabile, mortale. Sopravvissuto a Coppi e a Bartali, al ciclismo degli sponsor (che lui aveva inventato) e a quello del doping (che lui aveva combattuto), Magni Fiorenzo, corridore ciclista, e poi tutto nel ciclismo e molto nella vita, non sembrava arrivato, ma ripartito: un nuovo giro, un nuovo tour, una nuova vuelta, una nuova sfida, chissà.
Quel giorno, a Monza, in via Cavallotti, prima di rispondere alle mie domande, Magni Fiorenzo – continuo a chiamarlo, almeno per oggi, come facevano i suoi antichi colleghi a pedali –, spacciandoli per saluti, mi rammentò la gerarchia. Il direttore, Candido Cannavò. Il caposervizio, Angelo Zomegnan. I vecchi Rota e Ratti, i giovani Bergonzi e Minoliti. E Negri, Rino. Tutti bravi, tutti amici. Ma a ciascuno di loro riservava un personalissimo giudizio attraverso sottili sfumature nello sguardo, nella voce, nella fronte, nei sospiri, perfino nelle pause e nei silenzi. Mi osservava, mi studiava, mi misurava. Non mi conosceva, però mi aveva letto, e se lo diceva, era vero, non mentiva, né per convenienza né per piaggeria, non ne aveva bisogno. Anche in quel caso, e senza la necessità di ricordarmelo, esistevano chiare gerarchie. Magni Fiorenzo, il Leone delle Fiandre, lui.
Magnetico e magnifico, Magni incuteva timore, attirava rispetto, dettava legge. Perfino uno come Renzo Zanazzi, corridore ciclista, proletario di origine, socialista di fede, partigiano di guerra, anarchico di indole, rivoluzionario di pelle, scattava sull’attenti. Gli era stato gregario alla Ganna nel 1952, completando un trittico stratosferico (gregario anche di Bartali alla Legnano e di Coppi in nazionale al Tour). E da quel giorno, ogni volta che Magni Fiorenzo alzava il telefono, lui si presentava, puntuale e profumato, fosse per una riunione degli Azzurri d’Italia o una staffetta ciclistica dal Ghisallo a Roma con la fiaccola del Giubileo o un appuntamento proprio al Museo del ciclismo al Ghisallo. Così pure Ernesto Colnago, che fin da ragazzo aveva imparato a fare da sé cioè per tre, mettendosi in proprio, architettando invenzioni, scolpendo gioielli, impartendo ordini per ricevere ordinazioni, moltiplicandosi piuttosto che dividendosi, si faceva in quattro per sostenere le iniziative che il suo storico eroe, maestro, mentore gli lanciava come se fossero crociate. Ghisallo compreso.
Fu, quella del Museo del ciclismo al Ghisallo, l’ultima impresa di Magni Fiorenzo. Gigantesca, titanica, perfino tellurica. Magnitudo 10. La montagna andò da Magni, e Magni alla montagna. Con tutte le complicazioni di quel meraviglioso viavai, fuori dal comune, ma anche fuori mano. Perché se fosse stato dentro il Comune, se non di Milano, almeno di Monza, sarebbe stato tutto più semplice. Ma anche più banale.
Magni Fiorenzo è stato un Fiorenzo Magno. Ci ha lasciato tanto, tantissimo, fin troppo. All’ultimo chilometro, con diligente tempismo si dedicò a un’opera magna, quasi omnia, delegando l’impegno ad Auro Bulbarelli: “Magni il terzo uomo” (RaiEri, 416 pagine, 29 euro e quasi 2 kg). Ma chissà quanto altro ci sarebbe ancora da scavare e recuperare. A cominciare dall’orazione funebre di Alfredo Martini nel Duomo di Monza. Quel giorno perfino a Dio vennero i brividi.