Durante il Giro d’Italia è stato l’uomo degli attacchi: con 458 km fuori dal gruppo si è fatto conoscere vincendo meritatamente la classifica delle fughe. Mattia Bais ha 24 anni, ha appena concluso la sua prima stagione da professionista, eppure sembra già avere capito che l’attacco è la sua vera filosofia. In un’annata segnata dalla pandemia è comunque riuscito a distinguersi con azioni da lontano sia alla corsa rosa che alla Sanremo ed ha accumulato un bagaglio di esperienza che sarà fondamentale per il suo futuro, visto che anche nel 2021 lo vedremo in maglia Androni Sidermec. Mattia si è confidato con tuttobiciweb raccontandoci questo primo anno fuori dagli schemi, tra obiettivi e speranze per il futuro, ma soprattutto cercando di rivelarci cosa si nasconde dietro un attacco perfetto.
La stagione, seppur piuttosto concentrata, è ormai finita da un pezzo. Come è stato questo tuo primo anno tra i professionisti?
«È stato veramente stranissimo, non mi sarei mai aspettato di passare professionista in questo modo. Il lockdown ci ha parecchio penalizzato, ma sono comunque riuscito a mantenere la forma e a ritagliarmi un ottimo calendario. Sono veramente soddisfatto di quello che ho fatto, ho acquisito molta esperienza anche se i mesi di corsa sono stati pochi».
Comunque sei riuscito a toglierti qualche piccola soddisfazione…
«Grazie alla squadra ho potuto partecipare a corse del calibro del Giro e della Milano Sanremo, è stata un’opportunità enorme. La prima volta alla corsa rosa è un po’ un terno al lotto per tutti, è stata un bella sfida perché partivo con molta emozione e tanta voglia di fare, ma non sapevo se sarei stato in grado di resistere a tre settimane così intense. In qualche modo sono riuscito a ritagliarmi il mio spazio, ho cercato di andare in fuga il più possibile e sono stato addirittura premiato. Salire sul palco di Milano è stato veramente pazzesco, un riconoscimento enorme per me e per la squadra, insieme alla gioia c’è stato anche un po’ di rammarico perché a causa delle limitazioni molti dei miei amici e soprattutto i miei genitori non hanno potuto avvicinarsi, mi hanno solo intravisto dalle transenne. Vedere piazza del Duomo vuota è qualcosa che difficilmente mi dimenticherò».
Sei giovane ma hai già fatto dell’attacco la tua filosofia: da dove nasce questa indole così combattiva?
«Sinceramente... non lo so. Andare in fuga è sempre stato il mio modo di correre fin da giovanissimo, i miei amici mi hanno soprannominato “la freccia di Nogaredo” proprio per questa mia attitudine. In corsa il gruppo mi sta stretto, mi piace scattare, tentare la sorte andando all’attacco con pochi altri, meglio ancora se da solo. Quando riesco ad essere in testa senza troppi atleti mi godo meglio tutto, vivo la corsa da un altro punto di vista, è come se fossi libero. Ci sono fughe e fughe, ma centrarla al Giro e alla Sanremo è stata un’emozione completamente diversa. Sono corse che ero abituato a vedere in televisione, viverle in prima persona è pazzesco, soprattutto se attaccando ho più visibilità. Senti davvero la consapevolezza di essere protagonista in una competizione così importante e poi so che a casa ci sono parenti ed amici che fanno il tifo per me, mi spingono ad attaccare e io regalo loro delle soddisfazioni quando centro il bersaglio».
Dalla televisione tutto sembra facile, ma andare in fuga è piuttosto complicato…
«Certamente, in qualche modo è come una scienza, una materia che però va a lungo studiata e preparata. Non si può andare in fuga a caso, bisogna scegliere le tappe giuste, studiare l’altimetria e capire quali sono le frazioni più adatte: al Giro tutto questo è stato fondamentale per riuscire ad essere sempre protagonista e ad accumulare ben 458 km all’attacco. Poi, oltre alla teoria, è fondamentale l’aspetto pratico, innanzitutto ci vogliono le gambe, ma anche un po’ di colpo d’occhio al momento giusto, bisogna tenere duro e appena il gruppo crea uno spiraglio, anche se minimo, sfruttarlo subito a proprio vantaggio. L’esperienza è fondamentale, perché provando e riprovando si capisce quando il plotone lascia andare o no e in che tipo di tappe lo fa. Però alla fine è sempre una sfida alla sorte, fino a che non partiamo non possiamo essere sicuri di avercela fatta»
L’Androni Sidermec sposa proprio la filosofia degli attaccanti. Come ti trovi in questa squadra?
«La strategia dell’Androni si basa sulla corsa d’attacco, proprio come piace a me. È un’ottima squadra, sono tutti molto organizzati e programmano ritiri e gare nel migliore dei modi. Certo, non è una squadra non di World Tour, ma comunque riesce a garantirci un calendario di altissimo livello, è inutile buttarsi direttamente nella mischia, prima occorre fare una certa esperienza, essere preparati al meglio, ed è proprio ciò che Gianni Savio ed i suoi collaboratori fanno. Da questa squadra si esce con un bagaglio di esperienza incredibile e, se siamo bravi e riusciamo a metterci in evidenza, possiamo anche tentare di fare il grande salto: per il momento posso solo ringraziarli per tutto quello che mi stanno insegnando».
Quando sei in bici a chi ti ispiri?
«A livello puramente ciclistico direi Alessandro De Marchi, mi affascina la sua determinazione, la sua tenacia ad allenarsi e soprattutto il suo modo di correre che è molto simile al mio, è un vero combattivo e mi piacerebbe molto raggiungere quello ha fatto lui. In realtà quando pedalo la vera ispirazione è mio padre Renato: certo, lui non è un ciclista professionista, non ha vinto giri o tour come qualcun altro, ma è stato il mio modello più importante. Fin da bambino mi ha trasmesso certi valori della vita che ritengo fondamentali, io poi li ho trasformati correndo in bici, dalle categorie giovanili all’avventura tra i professionisti è sempre stato al mio fianco sostenendomi».
Come stai vivendo questo nuovo lockdown light?
«Fortunatamente sono in una zona gialla e quindi ho comunque una certa libertà, seppur limitata. È un periodo duro, non possiamo trovarci con gli amici, andare in giro, siamo costretti a fare molte rinunce, ma è necessario. Nelle scorse settimane ho staccato completamente ed ho ricominciato ad allenarmi solo qualche giorno fa, ora cerco di dedicarmi a quello che mi piace, come le camminate in montagna o a percorsi in bici un po’ diversi. Con la squadra non abbiamo ancora un programma definito, speriamo di riuscire a fare un piccolo ritiro nel mese di dicembre o a inizio gennaio».
Ti sei fatto un’idea di come sarà la prossima stagione?
«Quest’anno abbiamo finito di correre a fine ottobre e quindi penso che necessariamente la ripresa scorrerà avanti di un mese. Vedendo le molte corse che annullano, devo ammettere che un po’ di paura c’è, ma al Giro e in altre competizioni abbiamo dimostrato che nonostante le tantissime restrizioni possiamo correre in sicurezza. Probabilmente, almeno nella prima parte dell’anno, sarà tutto molto simile al 2020, con tamponi e bolla per i corridori e forse tutto a porte chiuse: è un po’ triste perché il ciclismo senza il suo pubblico perde la sua parte più importante, ma non si può fare altrimenti...».
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