Chi è un direttore sportivo, se non un ammiraglio? Che indica, accompagna, conduce. Chi è un direttore sportivo, se non un fratello maggiore o un secondo papà? Che comprende, conforta, esorta. Chi è un direttore sportivo, se non un pilota? Che sgomma, sgasa, sfreccia. Chi è un direttore sportivo, se non un sacerdote laico? Che ascolta, confessa, racconta, legge i sacri testi (il Garibaldi, innanzitutto), spesso prega, qualche volta manda al diavolo.
Alessandro Donati, 40 anni da compiere alla vigilia del Giro d’Italia, abruzzese di Atri ma con casa a Pescara, è un direttore sportivo. Alla Nippo-Vini Fantini-Faizané. Al Tour of Antalya, da ammiraglio, conduceva un galeone con due italiani (Damiano Cima e Giovanni Lonardi, poi secondo assoluto) e due giapponesi (Hiroki Nishimura e Hayato Yoshida), e così indicava, confortava, sgommava, spesso pregava e qualche volta mandava al diavolo. E, strada facendo, raccontava. Una storia d’amore. La sua.
Chilometro zero. “Basket e pallavolo, a scuola. Atletica, a 14 anni terzo ai campionati italiani, 2 mila metri, in pista. Calcio, ala destra, mi voleva il Pescara. Invece ciclismo. Perché cresciuto in una famiglia di ciclisti: mio nonno faceva un po’ di tutto per una squadra di dilettanti, il Bar Sportivo Pescara, maglia a strisce verticali bianche e nere come la Juventus, fra i suoi anche Franco Franchi, non l’attore, ma un futuro gregario di Fausto Coppi. Papà William, un anno professionista nella Ferretti, con Alfredo Martini direttore sportivo. E lo zio Antonio, un anno professionista nella Germanvox, von Vito Taccone capitano. E soprattutto mio fratello Walter, più piccolo ma più forte, innamorato di Marco Pantani, andava come un grillo, in salita mi staccava, la sua morte mi ha spinto a tentare quello che avrebbe voluto fare lui. Correre. La mia prima bici una Moser grigia, acquistata da Palmiro Masciarelli. Uscivo con gli amici, di giorno, in bici, uscivo anche con altri amici, di sera, come disc-jockey. Finché un giorno mi hanno chiesto di portare la borsa con il vestiario, e poi mi hanno detto o la borsa o il ciclismo. Per una settimana ho fatto la vita del corridore, a letto presto, poi ho vinto. Fine della carriera da disc-jockey e inizio di quella da corridore”.
Primo traguardo volante. “Così al ciclismo sono arrivato tardi. Junior, dilettante, ho smesso durante il servizio militare, ho ricominciato dopo. E professionista, nove anni, da gregario. Per Stefano Garzelli, Luca Paolini, Michele Scarponi, Fred Rodriguez e Frank Vandenbroucke, che aveva i suoi problemi, ma anche una classe immensa… Orgoglioso di essere stato un gregario. Non ero veloce, lo sapevo, vincere non era il mio mestiere, ma ero un trattore, e amavo dare tutto per il mio capitano, le sue vittorie le sentivo, in parte, anche mie. Tirare e inseguire, portare e riportare, infine rialzarmi, sfatto ma soddisfatto. Alla fine mi ero guadagnato anche il ruolo di regista in corsa: vedevo, intuivo, decidevo. Il massimo riconoscimento da Garzelli: là voglio essere davanti, mi diceva, al resto pensaci tu. Del mio ciclismo non rimpiango nulla, rifarei tutto, magari – potendo – meglio”.
Rifornimento. “La Parigi-Roubaix del 2010. La vigilia facciamo una ricognizione degli ultimi 90 km di corsa, compresa la foresta di Arenberg, dalla quale pensavo che non sarei uscito vivo, pedalavamo con le gomme gonfiate a 4,7 di pressione e il cerchione batteva. In corsa, invece, prima in fuga, poi con Paolini, rimediando a due forature e dribblando qualche caduta, all’ingresso della foresta eravamo appallati, si andava in leggera discesa a 60 all’ora, non era possibile entrare tutti nella strada a imbuto, eppure nessuno frenava, pensai ‘adesso ci sdraiamo’, fui l’unico a sfiorare il freno, e persi una cinquantina di posizioni. Nella foresta si andava così forte che le ruote planavano sulle pietre. Quando Bruno Cenghialta mi ha disse ‘vai!’, io ero già cotto. Ma per orgoglio tenni duro. Vedevo campioni sul ciglio della strada, fermi, o che giravano a vuoto con il 39. Arrivai a Roubaix con una trentina di corridori. Fummo accolti da un boato che, se ci ripenso, mi vengono ancora i brividi. Non partecipai allo sprint. Ventottesimo, tra Greg Van Avermaet e George Hincapie. Non sapevo che davanti a noi ce ne fossero solo nove, altrimenti qualche altro ‘morto’ lo avrei superato. Comunque secondo fra gli italiani, però non mi filò nessuno. Il giorno dopo pensavo che mi avrebbero raccolto nel sacchetto dell’immondizia, invece non avevo dolori”.
Sosta pipì. “Neoprofessionista, domandai ad Andrea Ferrigato quanto mancasse alla salita. Mi rispose: giovane!, il libriccino va studiato. Ancora da neoprofessionista, Bo Hamburger mi chiese se volessi una Coca-Cola, gli risposi, entusiasta, di sì, e lui mi disse: allora va a prenderne due. Sempre da neoprofessionista, in Belgio, in tre settimane guadagnai quattro kg: mangiavo per fare 200 km, poi dopo 80 mi ritiravo”.
Secondo traguardo volante. “Gran premio di Waregem, forai, per rientrare ci misi 40-50 km, in quel momento Johan Museeuw si era fermato per fare la pipì e il gruppo si era aperto, così mi ritrovai in fuga con dei passistoni, tutte bestie, grandi e grosse, davanti a me c’era lo svedese Magnus Backstedt, due metri, altrimenti non si sarebbe chiamato Magnus, quando si spostava prendevo tanto di quel vento che non riuscivo a dargli il cambio, lui mi diceva ‘tu italiano furbo’, gli rispondevo ‘no, io italiano stanco’, e poi ‘io italiano morto’, finché cedetti, finito come un calzino, nello stesso tratto di pavé venni ripreso dal gruppo e poi staccato”. "Sempre in Belgio, nevischiava, guardavamo all’ammiraglia in cerca di una parola di conforto, Franco Gini ci disse: non sono mica stato io a dirvi di correre in bicicletta”.