
Chissà se il primo a dribblare la domanda – Coppi o Merckx? – fu Jacques Goddet, giornalista e storico patron del Tour de France, o Bruno Raschi, il Divino, della “Gazzetta dello Sport”, o Gian Paolo Ormezzano, cantaglorie prima a “Tuttosport” e poi alla “Stampa”. Tutti e tre raddoppiarono la risposta: “Più grande Coppi, più forte Merckx”. Invece Beppe Conti si schiera: “Fausto Coppi il primo dei più grandi” (Graphot, 240 pagine, 18 euro).
Nel centenario della nascita (15 settembre 1919), il Campionissimo riconquista le librerie. Conti ama le sfide e, dopo aver già firmato una biografia di Coppi, ci riprova. Così, fra un libro-intervista (a Claudio Chiappucci) e un libro-guida (ai ristoranti del ciclismo), stavolta propone il suo personalissimo cartellino, la “top ten” dei pedali di tutti i tempi, un ordine di arrivo che scollina dalla strada alla pista, una classifica generale e universale. E la dichiara, la declama, la denuncia fin sulla copertina. Primo: Fausto Coppi. Secondo: Eddy Merckx. Terzo: Gino Bartali. Quarto: Bernard Hinault. Quinto: Alfredo Binda. Sesto: Jacques Anquetil. Settimo: Felice Gimondi. Ottavo: Louison Bobet. Nono: Miguel Indurain. Decimo: Marco Pantani.
Le classifiche intellettuali e sentimentali sono fatte per dividere i giudizi, moltiplicare le sentenze, sommare i verdetti, con l’evidente obiettivo di far “discutere gli appassionati di grande ciclismo”. Conti spiega: “Coppi il più grande per la portata delle sue vittorie, interminabili chilometri di fughe ad esaltare l’uomo solo al comando che scala le montagne. L’essenza del ciclismo. Coppi il più grande per l’epoca storica vissuta, le tragedie della Seconda guerra mondiale, i grandi drammi… E poi la completezza dei trionfi, battendo gli scalatori in montagna (Merckx a volte era anche costretto a difendersi) ed i pistard nei velodromi. E infine – ma in maniera speciale – le emozioni e la commozione offerte agli italiani, ma anche ai francesi, a chi seguiva lo sport in quell’epoca non facile”.
E ai suoi primi dieci di sempre regala un capitolo della loro vita a due ruote: la vita, appunto, la morte, inevitabilmente, e soprattutto i miracoli, i trionfi, i primati.
Conti non si nasconde che la sua è “una classifica che a non tutti piacerà”, ma sa anche che “è questo il bello delle graduatorie”. E un po’ per confrontarsi, un po’ per giocare, ha chiesto i personalissimi cartellini di altri ventitré “personaggi”: giornalisti, manager, dirigenti, uomini di spettacolo come Linus e di industria come Ennio Doris. Un bel modo per leggere, nelle scelte ragionate e spiegate, anche l’anima di chi ha dovuto scegliere fra Petit Breton e il Diavolo Rosso, Roger De Vlaeminck e Peter Sagan.
Così non c’è da stupirsi se Pantani, al terzo posto nella classifica di Massimo Gramellini, editorialista del “Corriere della Sera” (“Le sue frustate in salita mi inchiodavano davanti alla televisore”), non figura fra i preferiti di Claudio Gregori, firma storica della “Gazzetta dello Sport” (“Devo inserire Charly Gaul, il più grande in montagna, il vero prototipo degli scalatori”).
Così non c’è da sorprendersi se Philip Brunel, inviato dell’”Equipe”, inserisce tre francesi (Anquetil secondo dietro a Merckx, Hinault quarto dietro a Coppi, e Poulidor decimo “per la sua longevità atletica, per aver affrontato e anche saputo battere prima Anquetil e poi Merckx”), o se Pier Augusto Stagi, il nostro direttore a Tuttobiciweb, mette sette italiani fra i primi dieci (“Tra il cuore e la ragione, io ho sempre dato più peso al primo: il ciclismo altro non può essere che una mera questione d’amore”).
Interpellato da Beppe Conti, anch’io ho stilato i miei dieci di sempre. Primo, Binda: non si è mai visto un corridore pagato come se abbia già vinto tutto a condizione che non si presenti alla partenza. Lo chiamavano “il trombettiere di Cittiglio” perché suonava la cornetta nella bande del paese: in verità perché le suonava a tutti. Secondo Merckx: non si è mai visto un corridore così forte dovunque e comunque, così affamato di vittorie e assetato di gloria, così spietato in bici e sensibile giù dalla bici. La storia non dimentica che fu l’unico corridore a partecipare al funerale di Tom Simpson, che era stato suo compagno e suo rivale. Terzo, Coppi: ma primo nella letteratura, perché ancora adesso con lui e per lui il ciclismo diventa inno, elogio, poesia. Ho premiato Hinault per la sua completezza (andava forte dappertutto, anche in quella Parigi-Roubaix che non amava, anzi, che detestava, e che aveva definito “merde” prima della partenza e dopo l’arrivo, coerente – e bretone – nonostante la vittoria), Gaul per la sua specialità (una corsa alla cima, alla vetta, al cielo, come se fosse sempre impegnato a trovarvi un segno della presenza di Dio), Girardengo per il suo eclettismo (pista e strada, resistenza e scaltrezza, campione - anzi, campionissimo, il primo campionissimo - e faina), Bartali per il suo ciclismo umano e umanitario (le vittorie eterne si sono rivelate quelle silenziose, mute, ignote). Infine ho tutelato le minoranze: Longo fuoriclasse nel ciclocross, Maspes in pista, la Canins – a pane e acqua - fra le donne. E se ci fosse stato un undicesimo, stavolta per valorizzare gli umili: Sandrino Carrea, simbolo dei gregari.