PROFESSIONISTI | 11/01/2018 | 10:03 Sta per prendere un aereo, destinazione Valencia. Secondo ritiro stagionale della sua nuova vita. La terza, forse la quarta. O la quinta? «Ho perso il conto. So solo che ho festeggiato i trentacinque anni in ammiraglia. Ho cominciato che avevo ancora i capelli: avevo ventiquattro anni, e qualche corridore era più vecchio di me». Roberto Damiani adesso è (un po’) più vecchio dei suoi corridori, dice che l’esperienza è sopravvalutata («serve soltanto per ridurre gli errori») e che quello che invece ci vorrebbe è la grinta, «bisogna correre per vincere, sempre, e se poi uno va più forte di te alla fine vai a dargli la mano».
Uno come Roberto Damiani che deve andare in Francia a fare il direttore sportivo: anche nel ciclismo ci sono i cervelli in fuga? «Questa è una pugnalata. La verità è che ho sbagliato a ritornare. Se c’è una cosa che cambiarei è questa, dovevo rimanere in Belgio».
Siamo messi così male? «Il brutto è che non ci siamo ancora resi conto di dove siamo arrivati. Continuiamo a piangerci addosso, a dire sempre le stesse cose. Il ciclismo italiano è in uno stato di sopravvivenza. Mi è bastato mettere un piede nella sede della Cofidis per rivedere un’azienda con una grande partecipazione umana. Hanno programmi fino a Parigi 2024: sono pazzi loro o siamo pazzi noi? Forse sono io che non sono adatto al ciclismo italiano, so soltanto che se voglio lavorare a un certo livello devo andare all’estero. E a questo punto spero di finire la mia carriera lì».
Una carriera cominciata nella sua Legnano, diventata grande con la nazionale azzurra e poi passata al professionismo grazie alla fiducia di Davide Boifava. «Lo ringrazierò sempre. Così come devo dire grazie alla nazionale italiana, che ho frequentato dal ’96 al ’98. Io e Davide Balboni parliamo ancora di scudetto cucito sul cuore». Il cuore c’entra parecchio con il ciclismo di Damiani. «Fino al ’95 ho fatto un doppio lavoro, ma l’unico pregio di stare in una compagnia di assicurazioni era che rimaneva molto tempo libero per fare il direttore sportivo. Io ho avuto troppe poche gambe per fare il corridore, in compenso ho sempre saputo che il mio sogno era salire in ammiraglia. Guardavo Boifava, Cribiori, Bartolozzi. E sognavo».
Altri incontri cruciali? «Ho lavorato con Lefevere. L’amicizia con Aldo Sassi è stata fondamentale. E due anni con Ferretti come fai a dimenticarli? Magari abbiamo stili diversi, ma lui ha sempre corso per vincere. Sempre. Anche se andava con un gommone contro una portaerei».
Ha detto che non ci rendiamo conto di dove siamo arrivati. Dove? «Stiamo ancora facendo le battaglie per chi deve andare al Giro d’Italia come se fosse una questione di sopravvivenza. Invece dev’essere un valore aggiunto, nient’altro. Penso a quello che ha detto Prudhomme presentando le wild-card del Tour: ha detto che i corridori della Wanty-Groupe sono stati protagonisti nel 2017 e meritano di tornare. Noi chiediamo, chiediamo, ma ci dimentichiamo di alzare il livello».
E’ il momento peggiore del ciclismo? «In Italia sicuramente sì. E la Spagna non è tanto lontana».
Peggio che negli anni Novanta? «Sicuramente sì. Parlo di squadre, di livello organizzativo. Certamente non parlo di doping, da quel punto di vista stiamo stratosfericamente meglio adesso».
Stratosfericamente? «Abbiamo problemi ancora con qualche idiota, che va segato. Per il resto, o sono cieco io o le cose sono radicalmente cambiate. Per capirci: io sono a favore delle radioline ma contro i rilevatori di potenza. Però i rilevatori di potenza sono sintomo del fatto che ognuno gestisce il suo livello. Negli anni Novanta non c’erano livelli, c’erano i velocisti che arrivavano tranquilli sulla Marmolada. Ho letto su tuttobiciweb l’intervista a Lefevere, e non potrei essere più d’accordo: è ora di smetterla con l’autolesionismo, continuiamo a farci del male da soli».
La vicenda Froome non ha aiutato. «Ovvio. Ma perché non parliamo di Nibali che ha vinto quattro grandi giri senza un’ombra? O di Aru che ha vinto la Vuelta senza mai un problema? Facciamo fatica a dirlo perché abbiamo paura?».
Rischiamo di avere un altro caso Contador? «Mi auguro di no con tutto il cuore, ma il rischio c’è. E se penso alla potenza che metterà in campo la Sky, i tempi mi spaventano ancora di più. Mettiamo che Froome sia squalificato: vuoi che non facciano ricorso? Forse sarebbe ora di dire che chi è in attesa di giudizio non può disputare gare del World Tour, per esempio».
Che idea si è fatto di quello che può essere successo? «La prima cosa che penso è che dispiace che succeda alla squadra che si è posta come paladina dell’ipermanagerialità. Non puoi sbandierare etica e rigore e avere il tuo leader in questa situazione. Penso che sia stato un gravissimo, enorme errore. E se è un errore, tagliamo la testa a chi ha sbagliato perché nel ciclismo non possiamo più permetterci errori».
Damiani va in Francia, alla Cofidis. «Con Cedric Vasseur avevo lavorato come commentatore di corse. Quando mi ha telefonato per propormi di entrare nella squadra dei direttori sportivi mi ha detto: mi dispiace, ma posso darti poco tempo per pensarci su. Non mi serve tempo, gli ho risposto, ho già deciso. Sento la fiducia, la voglia, la grinta. E non vedo l’ora di cominciare, a Dubai. Poi, se andrà come credo, sarò alla Milano-Sanremo, la mia corsa del cuore».
Che cos’ha di speciale? «E’ come una bottiglia di champagne. Quando è chiusa ti sembra una bottiglia normale, quando la apri è champagne. Io amo i vini italiani, ma a Capodanno brindo con lo champagne. Ho i testimoni».
La Cofidis va alla Sanremo per vincere? «Nacer Bouhanni ha doti enormi di esplosività, mi ricorda Robbie McEwen, anche come durezza di carattere. Abbiamo parlato a lungo: lo dipingono come un boxeur, io ho l’impressione che sia un timido. Ma se ufficializzeranno la nostra presenza alla Sanremo, tutti per lui. La nostra parola d’ordine è tpg». Tpg? «Toujours pour gagner, ce lo scriviamo in tutti i nostri messaggi».
Vuole vincere la Sanremo? «Se succede faccio il bagno in mare vestito».
Tutto qui? «Sorseggiando champagne».
E’ francese anche il nuovo presidente dell’Uci, Lappartient. «Dobbiamo lasciarlo lavorare. Di sicuro dopo gli anni virati verso la Gran Bretagna, ci sarà un come back verso la Francia».
Con le nuove regole vedremo un ciclismo diverso? «Per niente. Non servono nè alla sicurezza nè allo spettacolo».
Se lei fosse il presidente del ciclismo mondiale cosa farebbe subito? «Sarebbe facile dire che mi occuperei dei giovani. Ma non voglio dimenticare quelli che ci sono già».
Ma in Italia qualcosa di buono ce l’abbiamo? «Corridori che ci invidiano in tutto il mondo. Direttori sportivi, massaggiatori, meccanici, tantissimo personale. Il sogno del 2018 è che torniamo a vincere il Mondiale. Non so con chi, purché abbia la maglia azzurra».
Se dico classe chi le viene in mente? «Philippe Gilbert, perché ho toccato con mano. Una delle mie fortune è stata aver a che fare con grandissimi campioni».
Mentalità vincente? «Cancellara. Hors catégorie». Forza? «Ancora Cancellara, una macchina da guerra».
Fantasia? «Potrei dire Scarponi: fantasia e umiltà assieme, in lui vinceva sempre l’istinto». Sagan le piace? «E’ talmente fantastico che mi ero dimenticato di lui. Sagan è fantasia, improvvisazione, irriverenza. E’ tutto quanto».
C’è un corridore che avrebbe voluto allenare? «Ho sempre avuto grandissima stima di Nibali. Non per le corse che ha vinto, ma perché è una persona seria che ama terribilmente il ciclismo. E il ciclismo bisogna amarlo».
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