E’ un libro onesto, quello su Marino Basso. Per l’episodio più felice, ma anche il più controverso della sua carriera, Mondiali ciclismo su strada 1972 a Gap, si cita Marco Gaetani per repubblica.it: “Il gelo tra i due dura qualche mese. ‘Quando ci incontrammo di nuovo, Franco (Bitossi, ndr) mi guardò e mi disse: ‘Sei un cane randagio. Ma proprio tu dovevi venire a prendermi? Non potevi aspettare un po’?. Poi recuperammo, ricordo che una sera ci trovammo alla Domenica Sportiva, dopo aver visto più volte il replay della volata ci abbracciammo’. Bitossi riesce quindi a dimenticare lo sgarbo, pur riconoscendolo: ‘Dietro non mi hanno aiutato. Sarebbe bastato che Basso e Dancelli spezzassero qualche cambio, con un normale gioco di squadra avrei comunque tagliato il traguardo per primo. Dopo l’arrivo ebbi una crisi di nervi ma non ho mai dato la colpa a Basso, sono rimasto suo amico. Ho chiuso la carriera alla Gis, in squadra con lui, e gli ho anche tirato una volata in una tappa al Giro del Mediterraneo. Penso, immagino, anzi so che lui ha fatto quello che poteva per venirmi a prendere e ha cercato tutti gli aiuti possibili per chiudere il buco. Ma è qualcosa che ha a che fare con la sua coscienza. Io non ho avuto rancore, mai’”.
Non aveva paura di nessuno, Marino Basso, da Rettorgole, frazione di Caldogno, provincia di Vicenza. Non aveva paura né in bici né giù dalla bici. Non aveva paura in volata, dove ci si sfidava a 60 all’ora, adesso a 70, rischiando la pelle propria e altrui, groviglio di gomiti e ginocchia, intrigo di manubri e cerchioni, geometrie di traiettorie e transenne. Non aveva paura nella vita, affrontata con la stessa spregiudicatezza. Che cos’altro ci si poteva aspettare da uno così audace da rivelare, proprio dopo quel Mondiale: “Ho servito il signor Merckx. Si è innervosito perché, una volta in fuga, io non mi sono mosso dalla sua ruota. Pretendeva che io mi mettessi a tirare e io gli ho detto se era diventato improvvisamente pazzo. Caro Eddy, gli ho detto, se io mi metto a tirare, sciupo le mie energie. Invece, me le tengo per la volata. Se ti senti più forte, cerca di staccarmi”.
“Non avevo paura di nessuno” è il titolo del libro che Gianni Poggi ha dedicato a quel velocista – Marino Basso - compatto, esplosivo, un Cavendish anni Settanta, scavando negli archivi, fra cronache e interviste, filmati e racconti. Non un’autobiografia, ma la ricostruzione della sua vita, la famiglia e l’infanzia, gli inizi, il dilettantismo e il professionismo, anno dopo anno, corsa dopo corsa, squadre e biciclette, tecnici e compagni. Marino Basso non aveva paura di confessare di aver cominciato a correre “solo per fare bella figura con le ragazze perché premi in palio non ce ne sono”. Non aveva paura di confidare (a Gianni Mura per “La Gazzetta dello Sport”) che “io ero proprio un vagabondo, mi piaceva solo stare in giro a giocare, a casa non ci stavo quasi mai, giusto il dormire, ecco. Ho studiato fino a diciott’anni, le medie e poi l’istituto professionale. Mi piacevano l’italiano e la geografia, specie fare i temi mi piaceva, perché potevo scrivere quello che mi piaceva. A essere sincero, studiavo perché non avevo trovato niente di meglio da fare”. Non aveva paura di rivelare (sempre a Mura) che “a me lavorare non è mai piaciuto, forse la terra era troppo bassa” e “a lavorare ho provato sì. Ma in sei mesi avrò cambiato tre padroni”. Non aveva paura di ammettere che fu Michele Dancelli a dirgli che “non era il caso di avere paura, perché tutti lì dentro avevano due gambe e una bicicletta”. Non aveva paura neanche di sé stesso.
E non ha avuto paura neppure l’autore del libro. Lo ha pubblicato in proprio (John Hills docus&books, e John Hills non è che Gianni Poggi in inglese; 206 pagine, 18 euro). Disponibile finora in alcune librerie di Vicenza e provincia, “Non avevo paura di nessuno” può essere richiesto scrivendo a marinobasso72@gmail.com. Senza paura.
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