C’è una grande storia. E c’è anche un grande libro. Il libro di quella storia. S’intitola “Della mia guerra, della mia pace”, lo ha scritto Anna Prouse, lo ha pubblicato Harper Collins (416 pagine, 19 euro, del 2023). E per raccontarlo, si può usare una bicicletta. Quella che divide Anna Prouse, nella sua autobiografia, a pagina 397, dalla sua prima alla sua seconda vita.
Quella domenica mattina – la vigilia di una operazione alla testa per intervenire su un tumore benigno ma comunque letale per dimensioni e posizione – avrebbe dovuto sottoporsi a una risonanza magnetica. E per facilitare l’esame, avrebbe dovuto tagliarsi i capelli a zero. Ma non voleva presentarsi così, con la testa rasata, a una festa di famiglia: voleva essere l’Anna di sempre, almeno l’ultima volta. Allora scappò dall’ospedale e in bici, shorts, casco e zainetto, si presentò alla festa. Al ritorno “la baia, mentre pedalavamo verso casa, appariva ai miei occhi maestosa”, “stavo raggiungendo lo stato di pace”, “non c’era ombra di panico”, “e seppur consapevole che avrei potuto non rivedere tutto ciò, ero serena e grata di aver avuto una vita così piena”.
Milanese, di famiglia neozelandese dalla parte del padre e francese da quella della madre. Lei del 1970. San Siro, inteso come quartiere. Rompiscatole e tenera, da piccola. Tennis, a farle da educazione, da sfogo, da fabbrica di sogni e da agenzia di viaggi. Più di Scienze politiche in Statale, la Croce rossa italiana come università. E qui l’ambulanza, la vita e la morte, un confine labile, invisibile. Intanto guide turistiche per la Moizzi. Tutto, a ripensarci, a indirizzarla, a proiettarla verso gli altri, verso l’altro, lontano, lontano come mentalità più che come distanza, come storia e non solo come geografia. Finché un guru indiano, sulla strada per Bombay, profetizzò: “Vedrai la morte in faccia… molte volte durante la tua vita”. Poi la tranquillizzò: “Ma avrai una vita lunga”.
Iraq. Consulente del governo italiano e statunitense a Baghdad e Nasiriyah dal 2003 al 2011. Fra terroristi e antiterroristi, anni trascorsi indossando un giubbotto antiproiettile, occupandosi di relazioni e ricostruzioni, scampando ad agguati e tranelli, minacce e condanne a morte, guadagnandosi stima e ammirazione, amicizie e gratitudini. Da donna, da italiana, da donna italiana. Sfide quotidiane, lotte continue, giornate archiviate come se fossero le ultime concesse dalla sorte, dai cecchini, dalle spie. Sopravvissuta a conflitti religiosi, politici, economici, sociali, finanziari, familiari, perfino burocratici. Sopravvissuta a scontri a fuoco e battute di caccia. Sopravvissuta anche a quel tumore al cervello “grande come una palla da golf”. Non ci sono soltanto la sua guerra e la sua pace, c’è anche il suo amore.
Anna Prouse si racconta così com’è: diretta, senza ricami e senza veli, a volte sembra peccare di immodestia, ma la sua sincerità la spoglia, ed è disarmante, convincente, vera. Fa nomi e cognomi, cita date e luoghi. Non fa sconti. Una testimone scomoda, intrattabile, ma non sola. Se lei ha dedicato il suo libro a Matt, il marito, americano, è perché lui si è dedicato a lei, amandola per come era, per come è, e prendendosene cura per quanto possibile.
C’è tanto, in questa storia, le prime 400 pagine divorandole, le altre centellinandole per non esaurirle. Il dolore di “Open”, nei rapporti fra madre e figlia. Le avventure – chissà perché mi viene in mente – di “Papillon”, in perenne bilico fra vita e morte. C’è anche una lezione antica e semplice: non tirarsi indietro. A pedali, per esempio, non si può. A pedali, si va sempre avanti.
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