Vento, strade strette e strappi a ripetizione: è l’Amstel Gold Race, la corsa della birra, prima prova del trittico delle Ardenne. Non una classica monumentale, ma un appuntamento che per storia (quasi sessanta le edizioni disputate) e distanza (253,6 chilometri) regge il passo delle sorelle più nobili. Si va da Maastricht a Valkenburg, su un percorso per atleti resistenti ed esplosivi, con 33 muri da affrontare, magari non iconici come quelli del Fiandre e della Liegi, ma in grado di metter a dura prova le gambe. Il meglio lo riserva sempre la seconda metà di gara, col doppio passaggio sul popolarissimo nonché popolatissimo Cauberg, dove gli olandesi si assiepano col boccale in mano fin dai metri iniziali in attesa della corsa. Sette le vittorie italiane, quasi tutte nel nuovo millennio, dei big mancano Pogacar e Van Aert, vincitori di due delle ultime tre edizioni: ecco le dieci facce che possono sventolare in cima al podio dei Paesi Bassi.
Mathieu Van der Poel. Vince perché in questa primavera gli riesce facilissimo, perchè questa è la prima classica che ha messo in bacheca cinque anni fa, perché dopo aver dato spettacolo in Belgio e Francia vuol farlo anche a casa sua. Non vince perché vuol risparmiare le batterie per dare l’assalto alla Liegi.
Tom Pidcock. Vince perché è una classica che ha sempre corso davanti, perché tranne il primo i gradini del podio li ha già frequentati tutti, perché dopo l’incidente ai Paesi Baschi ha corso una buona Roubaix. Non vince perché anche quando fa corsa di testa trova sempre qualcuno in grado di metterlo in difficoltà.
Ben Healy. Vince perché c’è andato vicino anche un anno fa, perché percorsi come questi lo esaltano, perché dopo il rodaggio del mese scorso è arrivato il momento di raccogliere. Non vince perché la sua generosità spesso finisce per diventare un limite e corse come questa non te lo permettono.
Benoit Cosnefroy. Vince perché fin qui la sua stagione è stata buonissima, perché il secondo posto di due anni fa dice che è adattissimo a questa prova, perché con Gregoire è il più indicato a riportare la Francia in cima al podio. Non vince perché nelle classiche essere un buon comprimario non significa esser anche un vincente.
Andrea Bagioli. Vince perché si è preparato per le Ardenne, perché il sesto posto di un anno fa dà fiducia, perché con Velasco, Albanese, Rota e il baby Busatto è fra i pochi che possono regalare un sorriso al ciclismo azzurro. Non vince perché troverà sulla sua strada avversari più esperti e tirati a lucido di lui.
Marc Hirschi. Vince perché queste sono le sue corse, perché fin qui non ha avuto troppe occasioni per mettersi in mostra, perché con McNulty ha la possibilità di non far rimpiangere il capitano Pogacar. Non vince perché lavorare in appoggio al suo leader gli ha tolto un po’ di smalto nei momenti chiave.
Maxim Van Gils. Vince perché nelle classiche delle Ardenne sa come si corre davanti, perché da inizio stagione sta facendo collezione di piazzamenti nei dieci, perché ha le qualità per diventare un vincente. Non vince perché a 24 anni gli manca ancora un pizzico di esperienza per lasciarsi dietro i migliori.
Matias Skjelmose. Vince perché è un altro danese da classiche, perché a 23 anni ha già dimostrato che le Ardenne sono il suo terreno di caccia preferito, perché fin qui ha corso poco e l’ha fatto sempre da protagonista. Non vince perché arrivare in alto è più facile che trasformarsi da protagonista in vincitore.
Michael Matthews. Vince perché è uno di quelli che non soffre sugli strappi, perché qui si è piazzato bene un paio di volte, perché laddove non arriva con la gamba può sempre rimediare con l’esperienza. Non vince perché è da un mese che sta andando molto forte e il serbatoio potrebbe cominciare a presentare il conto.
Matej Mohoric. Vince perché in questa corsa ha sempre fatto bene e può fare benissimo, perché il percorso è della misura giusta per lui, perché è l’occasione migliore per cercare quel risultato al Nord che insegue. Non vince perché la caduta al Fiandre e il successivo stop qualcosa gli ha tolto.