Oggi, vent’anni fa, Pantani. Un’agenzia, telegrafica, e la sentenza, di morte. Il mondo, il nostro mondo del ciclismo, ribollì, esplose. Fu un terremoto, un’eruzione. La vita, la nostra e quella del ciclismo, non sarebbe stata più la stessa. Non è questione di santificare o beatificare, sublimare o divinizzare. Marco non era santo, non era beato, non era divino, anche se John Gadret, che un po’ gli assomigliava nel viso e nel corpo, e molto cercava di assomigliargli in bici e in corsa, mi disse proprio così, Pantani era un dio. Però Marco in bicicletta aveva saputo regalarci emozioni, brividi, sentimenti, e di questo gli saremo sempre grati. Era un uomo di quei tempi, bui, gli anni di piombo del ciclismo, e questo bisogna considerarlo, non come una giustificazione, ma come una realtà. Doping, inutile nasconderlo, inutile nascondersi.
Oggi, vent’anni dopo, Pantani. La 66thand2nd ha ripubblicato il mio “Pantani era un dio”, un viaggio in Marco attraverso i gregari e le salite, la prima edizione nel 2014, la seconda adesso, con una copertina diversa e un capitolo in più. Fra le novità, “La mappa del Pirata” di Giacomo Pellizzari (Cairo, 234 pagine, 17 euro), che compie un’operazione letteraria simile. E’, parole dell’autore o dell’editore, una “guida sentimentale ai luoghi di Pantani”. Una guida anche molto personale. Pellizzari è andato in bicicletta, il modo migliore - la pedalata, il silenzio, l’umanità, la sintonia – per ritrovare un filo, un contatto, una storia ancora da rivedere, rileggere e infine raccontare.
Pellizzari sostiene: “Io Pantani l’avevo capito bene”. Lo dice subito, anzi, lo scrive subito, sono le prime parole del libro. Lo aveva capito bene attraverso una fotografia, in cui Marco è ritratto a otto anni, in piscina, con amici. E quel Marco bambino “non sarebbe mai cresciuto davvero, questo è credo il suo segreto più bello. La chiave per apprezzarne meglio la vita e le imprese”. Un Peter Pan, aeronautico, che le nuvole andava a cercarsele sulle salite, sui drittoni, sulle montagne, che le ali aveva trasformato in ruote. Solo un eterno bambino avrebbe potuto chiedere, come lui fece con Pino Roncucci, il suo direttore sportivo quando correva ancora fra i dilettanti, una settimana in più di vacanze. Spiegò: “Vengono a Cesenatico dei miei amici da Milano: ho bisogno di stare un po’ con loro”. Roncucci gliela concesse. E Pantani lo ripagò sfasciando la squadra, “quasi la settimana di vacanza l’avessero fatta loro e non lui”.
Pellizzari, pedalando, osserva e ascolta anche Bernard Hinault, il campione, conosce e scopre Stefano Serra, il meccanico, frequenta Moreno, Roberto e Michel, amici di Marco. Pedalando, suda e studia prima la Onno poi il Muro di Sormano, ricorda e ripassa le Cascate del Toce, si arrampica alla Capanna Bill sul Fedaia e allo Chalet Reynard sul Ventoux, si affida al Carpegna, sfida il Mortirolo, sbuca a Oropa, svetta sul Superga, espatria a Cuba, penetra nell’Hotel Touring di Madonna di Campiglio, torna a Rimini.
Pellizzari non scava e non riesuma, non annuncia e non denuncia, non assolve e non condanna, ma pedala intorno a Pantani e dentro di sé, la verità forse non esiste, la giustizia figurarsi, le strade sono strane, vanno e vengono, quelle che lui ha scelto tornano, soprattutto nei tornanti. Vent’anni dopo c’è poco o niente da scoprire, c’è solo da ritrovare un eterno bambino. Pellizzari, che sa scrivere, e scrivere bene, lo ritrova. Qui. Così.
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