Così parlò Lance Armstrong, il dannato, il signore di tutti i dannati: «Sono errori miei. Sono qui per dire che mi dispiace. È tutta colpa mia. Ho trascorso il resto della mia vita cercando di riconquistare la fiducia delle persone».
Poi c’è anche la spiegazione tecnica, qualcosa che aiuta a chiarire una certa epoca e una certa Epo, conviene tenerla a mente anche a beneficio di chi crede che l’antidoping risolva tutto: «Si trattava di ingannare il sistema. L’ho sempre detto e posso dirlo ancora: sono stato testato 500 volte e non ho mai fallito un test antidoping. Non è una bugia. Questa è la verità. Quando ho fatto la pipì e poi l’hanno analizzata, era ok. La verità è che alcune di queste sostanze, soprattutto quella che era la più benefica, avevano una durata di quattro ore. Alcune sostanze, come la cannabis, invece hanno una “durata di vita” molto più lunga. Puoi fumare una canna, andare al lavoro e risultare positivo due settimane dopo. L’Epo invece lascia il corpo molto rapidamente». Una lezione di chimica. Una lezione.
Terrei però la concentrazione ben fissa sulla frase iniziale, sono errori miei, è tutta colpa mia, eccetera, eccetera. Starei fermo qui perché mi sembra un modo per superare e uscire da un certo tunnel. Non il solo modo, ce ne sono altri, ognuno sceglie il suo. L’arrogante Armstrong, il bullo Armstrong, il cow-boy Armstrong, ci riappare nelle vesti della pecorella smarrita, di stampo evangelico. Ammissione di colpa e pentimento, le basi per il perdono: così, almeno, ci insegna Nostro Signore. Ma anche ogni legge comune di civiltà. Il problema che se mai resta sempre aperto è quanto questa conclusione, questo modo di uscirne, sia sincera. Da questo punto di vista, solo Armstrong sa. Noi dobbiamo prenderla per buona.
Lascio Armstrong al suo futuro da inventare - e al suo passato da emendare - per allargare lo sguardo sui tanti che come lui, in diverse stagioni, hanno ingannato, tradito, taroccato. Insomma hanno scelto la scorciatoia truffaldina per arrivare trionfalmente al successo. Non tutti sono giunti alla stessa conclusione, solo colpa mia, solo errori miei. Ognuno ha le sue tortuose vie interiori, chi ce la fa, chi non ce la fa, chi cerca ancora una volta la scorciatoia. Chi, soprattutto, una colpa a se stesso non la assegnerebbe mai. Il responsabile è sempre là fuori, nel mondo bastardo, nella vita carogna, nel complotto dei malvagi...
Ma certo, non giro attorno, arrivo anche a Pantani. L’alter ego di Armstrong, antagonista e rivale, in corsa e negli stili di vita (non a caso, si volevano bene come Renzi e Calenda). Davanti all’ultima uscita dell’americano, mi ha morso un po’ la malinconia. Inevitabilmente, senza volerlo, il pensiero è tornato a Marco e al modo suo, tutto suo, di uscirne, cioè di non uscirne mai. Penso con tristezza e anche un po’ di rabbia a quel periodo finale, dopo Madonna di Campiglio, quando si trovò davanti al bivio, per decidere come uscirne. Lui per primo, sostenuto da pletore di familiari, amici, scrittoroni e scrittorucoli, imboccò la strada del complotto, del vittimismo, del mondo bastardo e assassino. Per sé neppure una colpa, tutte colpe fuori, attorno, sopra. Lui santo, martire, eroe. E fine del romanzone.
Il nastro non si riavvolge mai, la vita è una e non c’è verso di rifarla da capo, in un altro modo. Eppure mi resterà sempre la curiosità di sapere come sarebbe finita se anche Marco, in qualche modo, avesse imboccato l’altra strada, un po’ alla Armstrong, incassando la squalifica, fornendo spiegazioni, prendendosi la sua dose di colpa. Magari non avrebbe più corso, ma forse avrebbe ancora vissuto. A lungo, diventando un bel novantenne. Magari togliendosi anche il gusto sacrosanto di dire che quella volta del Galibier, nel mitologico suo Tour, aveva battuto comunque uno bello imbottito di aiutini, quell’Ullrich che a sua volta di questi tempi s’è vuotato la coscienza alla Armstrong. Avrebbe potuto spiegare che quell’epoca era così, che l’Epo andava via come il pane, salvo poi ritrovarsi tutti distanziati come in natura, come prima di prendere Epo...
Non è andata così. Armstrong e Pantani hanno scelto due modi diversi, due modi opposti, di uscirne. Perché Marco ha scelto il modo suo, fino al disastro totale? Non so dire, nessuno è giudice. Magari non riusciva a immaginare una seconda vita, decisamente diversa, non necessariamente più brutta. O magari era troppo innamorato della prima, che lo faceva giocare a Dio.
da tuttBICI di gennaio