Scriveva: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Scriveva: “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”. Scriveva (tutte e tre le citazioni di “Lezioni americane”, Mondadori): “Ho scelto come mio motto l’antica massima latina ‘festina lente’, affrettati lentamente”.
Italo Calvino e la bicicletta: leggerezza, precisione, determinazione e quell’affrettarsi lentamente. C’è una foto, emblematica, di Calvino in bicicletta: l’ha scattata Carla Cerati, ritrae lo scrittore probabilmente in quell’attimo, magico, in cui trova l’equilibrio per pedalare. E la bicicletta potrebbe essere il simbolo dello scrivere, del pensare, del vivere di Calvino.
Le Scuderie del Quirinale, a Roma, ospitano la mostra “Favoloso Calvino” (fino al 4 febbraio 2024, tutti i giorni dalle 10 alle 20, ingresso 16 euro) per celebrarne i cento anni dalla nascita. Non solo le sue parole, i suoi libri, le sue foto (però questa di Cerati - che peccato - non c’è), ma anche opere d’arte che hanno accompagnato e segnato la sua vita. E qui la bicicletta compare due volte: in una foto in bianco e nero del marzo 1963, “Lavoratori all’uscita dello stabilimento Fiat di Mirafiori”, e nella copertina di “The New Yorker” del marzo 1966, firmata da Saul Steinberg, romeno naturalizzato statunitense.
Calvino scrisse di biciclette sull’”Unità”: “Ma a proposito di posteggio, siccome non possiedo un batiscafo come non possiedo un cavallo, potrei contentarmi d’andare alla festa in bici. Pedalare lungo il Valentino e il Po in una bella mattina d’autunno è una cosa che riempie di allegria. Ma si parla di una certa Barbera che alla festa scorrerà copiosa come un’alluvione. Ho paura che tornando domenica notte la mia bici cominci a fare la gimkana: e se andassi a finire in un fossato?”. Ne scrisse in “Marcovaldo ovvero le stagioni in città” (Einaudi): “Attraversava la città sotto la pioggia dirotta, curvo sul manubrio della sua bicicletta a motore, incappucciato in una giacca-a-vento impermeabile. Dietro, sul portapacchi, aveva legato il vaso, e bici uomo pianta parevano una cosa sola, anzi l’uomo ingobbito e infagottato scompariva, e si vedeva solo una pianta in bicicletta. Ogni tanto, da sotto il cappuccio, Marcovaldo voltava indietro lo sguardo fino a veder sventolare dietro le sue spalle una foglia stillante: e ogni volta gli pareva che la pianta fosse diventata più alta e più fronzuta”. Ne scrisse in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (Einaudi): “Un uomo lungo e secco, dalla faccia scura, un po’ come un indiano d’America. Viene avanti in bicicletta, guardando fisso davanti a sé, come se il tenersi in equilibrio sul sellino richiedesse tutta la sua concentrazione. Appoggia la sua bicicletta al capannone, sfibbia una borsa appesa alla canna e ne tira fuori un registro dalle pagine larghe e basse”. E Calvino pedala anche nell’antologia “Bicicletta – Pedalate d’autore – Dicono di lei” (Elleboro). Con leggerezza, precisione e determinazione. Affrettandosi lentamente.
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