Niente radioline e ammiraglie, assistenza tecnica solo in alcuni punti selezionati del percorso, polvere e terra che si alzano sui corridori... e naturalmente i rischi connessi allo sterrato. Di quell'ibridazione tra strada e off-road che è il gravel, e del suo boom post-pandemico, uno degli uomini più entusiasti d'Italia è Mattia De Marchi. Cugino minore del celebre Alessandro, rosso anche lui ma di Noale e non di Buja, il 32enne Mattia si definisce "70% atleta e al 30% gestisco il nostro team".
L'abbiamo incontrato ieri dopo la Serenissima Gravel, malconcio per una caduta all'ultimo giro ma fiero di aver comunque portato a termine la corsa in quindicesima posizione: lui è uno dei 19 che hanno tagliato il traguardo di Cittadella, insieme al compagno di squadra Enrico Franzoi. «Ho detto a un altro corridore che era vicino a me in un gruppetto attardato di andare avanti per la sua strada e perché tanto non ne avevo - racconta De Marchi - e la sua ruota ha inavvertitamente spostato un sasso, sul quale sono incappato io: sono i rischi di questa specialità, in ogni caso era dal mattino che non mi sentivo tanto in forma...»
Hai pagato le fatiche del Mondiale di domenica?
«Anche l'emozione e la tensione della gara iridata, sì. Poi al lunedì e martedì non è che mi sia riposato, avendo un team da gestire. Comunque sono davvero contento di aver disputato queste due gare gravel in pochi giorni così vicino a casa mia.»
Ci parli della tua squadra, la Enough Cycling?
«L'abbiamo fondata con una decina di ragazzi tre anni fa e il nostro motto è andare in bici perché ci rende felici. Il tema di quest'anno in particolare è che le cose belle accadono a metà: la nostra metà ogni tanto è fare delle gare come oggi, altre volte può essere un bikepacking o un'avventura assolutamente non agonistica in bicicletta. Come quando ho pedalato giorno e notte per 1300 chilometri in Marocco. Non ci precludiamo niente e cerchiamo di vivere la bici a 360 gradi: c'è chi viene a gareggiare e chi partecipa solo a qualche evento in cui si sta semplicemente insieme. Ad ogni modo, sul nostro sito potete leggere il nostro intero manifesto. Di sicuro, divertimento non vuol dire poca serietà: un mese prima del Mondiale non nego di aver sputato sangue, dato che sono un dilettante e non corro nemmeno tutto l'anno, per alcuni periodi mi alleno e basta. Sono riuscito ad arrivare in forma al Mondiale e ho dimostrato che se corressi con costanza potrei giocarmela (Mattia De Marchi è stato dilettante fino al 2017, chiudendo la carriera nel team Friuli ndr). Quando mi schiero al via di una corsa morirei su quella bici!»
Cosa ti ha spinto a creare la Enough Cycling?
«Ero in cerca di un modo alternativo di vivere la bici, staccato dal mondo professionistico: si sono messe insieme una serie di situazioni e persone giuste, e in tutto questo ecco il boom del gravel...»
Sei da solo come leader del progetto?
«Siamo tre soci: con me ci sono Federico Damiani e Jacopo Lahbi. Io mi occupo più della parte logistica e calendari, gli altri si occupano pure del marketing: viviamo di sponsorizzazioni, ai brand diamo in cambio bei contenuti, raccontiamo o gare o semplici domeniche in bici o cosa può accadere in avventure da 700 chilometri. Insieme a me, l'altro più agonista è Francesco Bettini (nipote del grande Paolo ndr): siamo gli unici a essere categorizzati come Elite. Ma come accennavo prima, abbiamo le più svariate tipologie di ragazzi. Siamo felici di accogliere chiunque abbia voglia di unirsi a noi, vedo che sempre più persone ci seguono e magari si avvicinano a questo modo anche grazie a noi.»
Il tuo illustre cugino Alessandro ha un ruolo?
«Ci segue e ci supporta tanto, e a sua volta secondo me ha tratto beneficio a livello mentale: svolgere attività insieme a noi gli è stato forse utile a ricordarsi che, pur in un ciclismo esasperato dove devi essere al 110%, è fondamentale tirare un po' il fiato.»
In definitiva, che cos'è per te il gravel?
«Un mio carissimo amico dice che il gravel... non esiste! Nel senso, lo si può vivere come una gara o come una semplice pedalata domenicale o come un bikepacking da una settimana, etc etc. Non c'è una vera definizione, di sicuro se una bici è abbastanza per renderti felice, hai vinto. E così vi ho spiegato pure perché l'abbiamo chiamata Enough.»