Non so scrivere prefazioni. Ma me le chiedono. E per non deluderli, ci provo. Questa l’ho scritta per Francesco Cavallaro, autore di “In bici”, Ultra Sport.
Le più belle pedalate le ho vissute sui libri. Come la Cuneo-Pinerolo al Giro d’Italia del 1949. Il gruppo che alla partenza rimane chiuso, come per proteggersi dall’oscurità, dalla pioggia, dal freddo, dall’inevitabile battaglia. Valeriano Zanazzi, un gregario, che si aggiudica un traguardo volante, e che poi sarà costretto a restituire quei soldi per una multa causa traino. Primo Volpi, un attaccante, che ai piedi della Maddalena, la prima delle cinque montagne da scalare, accende la corsa e scatta. Gino Bartali, che lo insegue. Fausto Coppi, cui salta la catena. E Sandrino Carrea, che lo aiuta, gli sistema la catena, versa alcune gocce di olio per lubrificarla e poi a mani, a braccia, a piedi, a voce, spinge Coppi e la sua Bianchi verso la storia, la gloria, l’immortalità ciclistica. Quei due, davanti, Coppi e Bartali, tesi a impadronirsi della maglia rosa, su e giù per Vars e Izoard, Monginevro e Sestriere, e quei due, dietro, Luigi Malabrocca e Sante Carollo, impegnati a conquistare la maglia nera, fingendo forature o nascondendosi nei silos. E Mario Benzo, l’ultimo al traguardo, quanto avrei dato per farmi raccontare da lui quei 254 chilometri e soprattutto quell’ora, 34 minuti e 5 secondi di distacco dal Campionissimo.
Le più belle pedalate le ho fatte in macchina, la macchina della «Gazzetta dello Sport», alla guida Gigi Belcredi, professione norcino, al posto del navigatore Claudio Gregori, missione inviato speciale, dietro io e, per anni, Paolo Condò, inviati nel mondo dei balocchi, o dei sogni, o delle favole. E il Giro d’Italia che si trasforma in un viaggio nel tempo: un tuffo nel mare dei ciclopi, un teorema nella patria dei pitagorici, un calice nel regno del Morellino, una mozzarella nel recinto delle bufale, una scalata sui tornanti di Charly Gaul o di Imerio Massignan, un elogio dedicato al gregario primatista nel trasporto di borracce, un inno composto per un fuggitivo che non si arrende fino al momento della cattura, un ritratto schizzato con il cuore per un colombiano dall’età indecifrabile.
Le più belle pedalate le ho fatte a piedi. Come sul Passo del Gavia, Giro d’Italia 1988, primo tornante, quello dopo il triangolo isoscele in legno che tutela l’acqua ferruginosa di Sant’Apollonia. Il gruppo sgranato, davanti un olandese in maglia ciclamino, Johan Van der Velde, fra i primi c’è anche Roberto Pagnin eterno attaccante, la maglia rosa è indossata da Franco Chioccioli dal profilo coppiano, i corridori procedono lentamente, faticosamente, spiritualmente, e già l’aria cambia, il cielo cambia, anche la strada cambia, e cambia la storia, il resto lo avremmo visto alla tv, quel poco che si può vedere dentro una bufera di neve e ghiaccio, di sofferenza e follia, di una bellezza leggendaria, di un racconto mitico, di un gruppo eroico, di un ricordo indelebile e che anzi si arricchisce con le testimonianze di chi, su quelle bici, pedala per sopravvivere.
Le più belle pedalate le ho fatte anche in bici. Per me la bici è un tappeto volante, un cavallo alato, un circo itinerante, un sogno a occhi aperti, un dosatore di benessere, un misuratore di felicità, anche un dolcissimo strumento di tortura. Proprio come per Francesco Cavallaro.
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