A soli due giorni dall'inizio del Tour de France 2023, siamo sicuri che molti di voi avrete guardato la docuserie Netflix Au coeur du peloton uscita l'8 giugno, che come recita il titolo ci ha portati "all'interno del gruppo" che ha disputato l'edizione 2022 della Grande Boucle. Anche se forse sarebbe meglio dire che ci ha portati all'interno di 7 delle 22 squadre che hanno corso il Tour.
Non possiamo parlare di questo documentario senza menzionare il suo "fratello maggiore" automobilistico: F1 - Drive to Survive. La casa di produzione è la stessa, la Box to Box (appena sbarcata anche nel tennis con Break Point). Lo stile narrativo di base, comprensibilmente, pure, coi pregi e i difetti del caso.
L'impostazione di base è quella. Alternanza di immagini suggestive da dentro la corsa, con voci dei telecronisti ufficiali (en français, ça va sans dire) e audio originali dei protagonisti, e interviste vis-à-vis con la telecamera realizzate in studio. Immagini catturate dentro i bus delle squadre o a casa dei corridori, e intermezzi di commento e contestualizzazione da parte di giornalisti e commentatori. Il tutto con un criterio ben preciso: non cronistoria, ma monografia. Ognuna delle 8 puntate si concentra su una o due storie. Di singoli atleti o del momento di una squadra. Certo, il primo episodio riguarda il grand depart e l'ultimo narra la settimana finale che culmina con la premiazione parigina. Ma in mezzo non sono rari i salti temporali all'indietro su tappe già viste in precedenza, spostando però il punto di vista sulla storia che si sta sviluppando in quella puntata. Così come ci sono tappe che vengono saltate a piè pari e mai raccontate.
Ma quali sono le squadre coinvolte? La Jumbo Visma, con la scelta di Jonas Vingegaard anziché Primoz Roglic per contendere la classifica a Tadej Pogacar, e super Wout Van Aert perennemente oscillante tra gregariato di lusso e voglia di prendersi gioie personali; la Ineos Grenadiers, con la vertiginosa Alpe d'Huez di Tom Pidcock e quel "vecchietto da podio" di un Geraint Thomas; la Quick Step, col vulcanico Patrick Lefevere in prima linea a raccontare la filosofia del Wolfpack e il bellissimo inizio nel segno di Fabio Jakobsen tornato alla vita dopo l'incidente polacco del 2020; la Alpecin Deceuninck, con l'uscita di scena di un Van der Poel spompato dal Giro d'Italia e gli sforzi disperati di Philipsen per togliersi di dosso la nomea di Jasper Disaster; la Groupama FDJ, stretta nella morsa delle pressioni dovute al fatto di essere una squadra francese al Tour, esacerbate dalle polemiche per la scelta di David Gaudu come capitano in luogo di Thibaut Pinot; l'Ag2r Citroen, altro WorldTeam francese, tra le difficoltà di Ben O'Connor e il colpaccio Bob Jungels alle Porte del Sole; e la EF, col doppio scivolone a cronometro dell'atteso Stefan Bissegger, la vittoria di Cort Nielsen post-riposo e gli "eccessi di entusiasmo" di Neilson Powless.
Non ci sono quindi tutte le storie e non tutte le "corse nella corsa" che si snodano dentro un Tour de France. Ci sono le storie che era possibile ricavare dal lotto di team che avevano trovato l'accordo con la produzione per accoglierne le telecamere e apparire nella docuserie. Un prezioso dietro le quinte che ci permette di vedere cosa succede in bus o in ammiraglia, ricostruisce tattiche e pensieri dietro ad alcune tappe (ve lo diciamo già: la puntata sul Telegraphe-Galibier-Granon è la numero 3), scava nelle persone-atleti ma anche nelle persone-manager (spiccano le personalità di Jonathan Vaughters e Marc Madiot) e ci fornisce una nuova prospettiva su cosa ci può essere di più profondo dietro a un andare in fuga, uno staccarsi, un attaccare. Quanto un terzo posto nella classifica finale possa costituire per qualcuno un obiettivo equivalente alla vittoria. O ancora quanto può esser forte il dramma sportivo dei velocisti quando in una frazione designata per loro vengono beffati dai fuggitivi, e quale struggimento possa diventare la lotta contro il tempo massimo per rimanere in corsa nelle giornate di montagna. E ci ricorda come, dietro a un nome-cognome-bandierina-sigla di squadra con un 31° nell'ordine d'arrivo di una tappa, si possano celare sforzi, dinamiche, imprese e problematiche interessanti quanto quelle del vincitore di cui si occuperanno quel giorno le cronache.
Tutto bellissimo, e tutto anche utile per noi addetti ai lavori. Ma va sottolineato un aspetto che ai nostri occhi ha cagionato stridore: la pressoché inesistenza delle squadre al di fuori delle "magnifiche sette" oggetto della docuserie. E relativi corridori, naturalmente. Ora, non siamo così ingenui da non capire che ovviamente Box to Box e Netflix ci raccontano le squadre con cui è stato stretto l'accordo: sarebbe assurdo pensare che, se la Jayco AlUla è fuori dal lotto, loro mi debbano comunque raccontare la pur interessante storia di Groenewegen. Ovvio, non parliamo di questo. Ma parliamo di accenni minimi di cronaca. Parliamo del fatto che la seconda puntata sviscera magistralmente l'infernale tappa del pavè, in particolare la faticaccia e a tratti la confusione vissuta dalla Jumbo Visma e l'inseguimento a Tadej Pogacar, e non c'è neanche un accenno finale, nemmeno un secondino di voce fuori campo del telecronista, che così en passant dica "Vince Clarke". Ostracismo a chi non è della docu-partita, tranne quando proprio inevitabile.
Solo Pogacar fa eccezione. Non poteva essere altrimenti: normale che venga nominato e visualizzato maggiormente, ha il ruolo del bicampione in carica nonché del fenomeno da battere. L'ideale antagonista della narrazione. Naturalmente, dato che la UAE non ha concesso alle telecamere Netflix di includerli nella docuserie, lo sloveno non può essere intervistato o raccontato "direttamente". Semmai esiste proprio in quanto avversario di Vingegaard e compagni.
E fin qui va bene. Ciò che va meno bene è la più clamorosa mancanza di questo prodotto di otto episodi. Non riuscendo forse a cucire addosso a Tadej quel profilo da cattivo (con tutta la buona volontà, è impossibile) necessario per creare l'effetto "eroe contro nemico da sconfiggere" gli autori hanno deciso di omettere uno dei momenti più simbolici dello scorso Tour e non solo: la scivolata in discesa nel tappone di Hautacam e Vingegaard che anziché approfittarne lo aspetta, quel "cinque" che è entrato dritto dritto nei libri di storia del ciclismo ma non è entrato in questa docuserie. Sarebbe stato troppo miele per una narrazione di antagonisti sportivi? Fatto sta che il racconto indugia sulla quasi-caduta di Vingegaard nella curva precedente e salta bellamente quella successiva vera e propria di Pogacar, per arrivare direttamente alla salita finale con Van Aert versione moto e l'attacco vincente del danese. Un'omissione marchiana, un autentico sacrificio sull'altare della linea narrativa impostata.
Se questo "sacrificio" è il più grosso, non è l'unico riguardante squadre che pur sono dentro la docuserie. Ad esempio, nonostante ci sia la EF non si fa menzione della beffa subita da Alberto Bettiol a Mende, quando accarezzò l'idea di conquistare la 14esima tappa ma fu sorpassato sulla rampa conclusiva da Michael Matthews. Della formazione di Vaughters sono stati evidentemente preferiti altri personaggi, già citati. Oppure: della Jumbo Visma si fa vedere vita, morte e miracoli come giusto che sia, ma nell'ultima puntata, concentrata su Jonas vs. Tadej e super Wout, non si parla minimamente della tappa di Cahors, la numero 19, vinta da Christophe Laporte.
Comunque, al netto delle perplessità che Tour de France: au coeur du peloton può suscitare negli appassionati di ciclismo, ricordiamo che l'intento di prodotti come questo, F1 Drive To Survive et similia è soprattutto quello di diffondere l'interesse per lo sport in questione presso i non appassionati, per allargare il bacino d'utenza. Quindi l'importante è che siano accattivanti e ben costruiti: indubbiamente lo sono.
Magari ecco, l'ideale sarebbe una fruizione "con bollino giallo": non minorenni accompagnati da adulti, in questo caso, bensì neofiti accompagnati da conoscitori della materia. Giusto per avere qualcuno che durante la visione sappia spiegarti al volo cos'è quella GC di cui tutti parlano, o perché lo stesso atleta in alcuni momenti ha una maglia gialla e all'improvviso la cambia con una verde, o che quel O'Connor sì ok era l'uomo classifica dell'AG2R, ma non è che avesse realisticamente tutte 'ste aspettative addosso e 'ste chance di lottare per il podio, ma la sua squadra era tra quelle oggetto del documentario e una storia interessante su di loro la si doveva mettere in piedi. O che appunto, in quel tappone decisivo verso la fine si verificò un momento-simbolo tra i due grandi contendenti che però non è stato mostrato.
Certe forzature non sono facili da digerire, ma mettiamola così: se qualcuno che prima ci rinfacciava la noia del guardare le gare ciclistiche, dopo aver visto questo prodotto su Netflix non vedrà l'ora di gustarsi il Tour 2023 insieme a noi, allora potremo accettarle a cuore un po' più leggero.