Un uomo rovesciato sulla propria bicicletta, in una pozza di sangue. E un altro uomo che si china su di lui. “Omicidio in bicicletta”, a Palermo, nel 1984.
Un uomo e una donna che si baciano, sulla sabbia, al mare, tra ombrelloni e sedie a sdraio, borse e biciclette. “Sulla spiaggia di Mondello”, 1982.
Letizia Battaglia. Fotografa, grande fotografa, molto più di una fotografa per quanto grande. E grandi fotografie in mostra a Genova (Palazzo Ducale, fino al 1° novembre), Roma (Terme di Caracalla, fino al 5 novembre) e Bibbiena (collettiva e permanente nella Galleria a cielo aperto, dal 17 giugno).
Palermitana, nata nel 1935, morta nel 2022. Nome e cognomi in contrasto, da paradosso, da ossimoro, forse nella vita avrebbe cercato, e la vita le avrebbe dato, più Battaglia che Letizia. La Sicilia, le donne, la gente. La politica, la strada, la mafia. Etichettata come “la fotografa della mafia”, Battaglia ha documentato, raccontato, ritratto quello che succedeva, quello che era appena successo, e per un lungo periodo anche la mafia, da fotografa di una guerra di tutti i giorni. “La fotografia è un mezzo intellettuale culturale – diceva a Goffredo Fofi in “Volare alto volare basso” (Contrasto, 2021) -. E’ un mezzo per esprimersi, così come forse la scrittura, la bicicletta e tante altre cose”. E ancora: “E’ un mezzo che io ho trovato efficace quando ho fotografato la mafia e ho potuto raccontare cos’era vivere la guerra civile che era in corso nella nostra società”.
Dura, forte, potente. Senza sconti, senza freni, senza pregiudizi. La realtà nuda e cruda, autentica e crudele. Uomini e donne, bambini e bambine. Foto in bianco e nero, che sanno di verità, luci e ombre non solo nelle stampe ma soprattutto nei sentimenti e nelle emozioni, in certi sorrisi e in certe disperazioni, così come sono e così come erano, chissà quante volte si sarà sentita in pericolo o a rischio, perdente e perduta, però consapevole e felice in una professione missionaria. Esserci per poter essere.
Cominciò a fotografare per caso, Letizia Battaglia. E per necessità. “Nessuno mi ha insegnato, ho imparato da sola, sempre sbagliando”, “Lavoro molto di istinto”, “Con la fotografia sono finalmente riuscita a essere una persona: non ero più una moglie, non ero un’amante, non ero bella, non ero giovane, ma ero una persona che faceva testimonianza di qualcosa. Con molta convinzione”. Il resto se l’è cercato. Andava e fotografava. Correva e fotografava. Si spingeva, si sporgeva e fotografava. S’inseriva, s’insinuava e fotografava. Osava, azzardava e fotografava. Milioni di scatti. Scatti anche dove le biciclette facevano soltanto parte di una tappezzeria di morte o di festa.
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