Nel giorno di riposo del Giro d’Italia, l’estremo riposo di Pippo Fallarini. Che il Giro d’Italia ha corso otto volte consecutive, dal 1956 al 1963, sette fino in fondo, il miglior piazzamento nel 1957 con il quattordicesimo posto, sfiorando la vittoria di tappa almeno tre volte, secondo nella Roma-Scanno al Giro del 1958, terzo nella Alessandria-Genova al Giro del 1956 e nella Genova-Torino al Giro del 1959. Pippo vinse altrove: da dilettante l’oro ai Giochi del Mediterraneo, da professionista due tappe al Giro d’Europa (con la maglia di primo nella classifica generale) e una nella Roma-Napoli-Roma, Coppa Bernocchi, Giro del Lazio, Gran premio Industria e Commercio di Prato, altro ancora. E vinse, soprattutto, nella vita. Tutti gli volevano un gran bene. Anzi, tutti lo amavano.
Perché Pippo aveva il dono della sincerità: “Sulle Dolomiti aspettavamo solo che gli scalatori scattassero. Scattati lori, potevamo finalmente proseguire con il nostro passo. Era una liberazione. Anzi, una benedizione”.
Perché Pippo aveva l’arte del racconto: “Fausto Coppi mi considerava. Da subito. Al Giro, in certe tappe cercavamo di prendercela comoda. Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che seguivano la corsa per la tv, stavano girati verso di noi e ci raccontavano barzellette. Intanto, quasi senza accorgercene, l’andatura aumentava. Poi scoprimmo che a chiederglielo era stato Giuseppe Ambrosini, il direttore di corsa, per farci andare più forte”.
Perché Pippo aveva il dono della leggerezza: “Ogni tanto Coppi mi ordinava: ‘Esordiente, va’ a vedere chi c’è in fuga’. Ubbidivo, andavo, tornavo, riferivo. Se in fuga non c’era nessuno, si continuava con le barzellette. Se in fuga c’era qualcuno, si faceva la corsa”.
Perché Pippo aveva il dono della memoria storica: “La Parigi-Roubaix, quella del 1959. Ricordo il pavè, tanto e pessimo. Ricordo belgi e francesi, che quando attaccavano, voleva dire che stava per arrivare il pavè. Ricordo che, se ti giravi indietro, ti piombava addosso il gruppo, un’ecatombe. Ricordo che Michele Gismondi si arrabbiò con me perché sul pavé galleggiavo, ‘ma come fai?’, mi chiese, ‘datti da fare!’, gli risposi. Ricordo che ci contendevamo le banchine, che montavamo cerchi in legno, più flessibili ma più pericolosi, che foravamo noi ma anche le ammiraglie, tant’è che spesso l’ammiraglia non c’era e allora continuavamo a pedalare fino a distruggere la bici. Ricordo che si andava in treno a Parigi, bici al seguito o su un camioncino guidato dal meccanico, tre o quattro corse più la Roubaix. Ricordo che da Parigi alla partenza si facevano 30 chilometri in bicicletta, poi più di 260 di gara, e magari pioveva. Ricordo le docce al velodromo di Roubaix, sembravano quelle di un lager, l’acqua calda per i primi, fredda per tutti gli altri”.
Perché Pippo aveva il dono della simpatia: “Fu Coppi a insegnarmi a correre. ‘Testone, in bici si fa come si fa in macchina’. Ma io la macchina non ce l’avevo”.
Perché Pippo aveva anche il dono della gratitudine: “Fu Coppi a spiegarmi che allora, da giovane, non sentivo niente, ma da vecchio, sarebbero stati tutti dolori”.
Per questo Pippo era amato anche dal prete di Vaprio d’Agogna: quando Pippo vinceva, lui correva in chiesa e suonava le campane a festa. Perché era la festa di tutti.
Pippo si chiamava Giuseppe, da 11 giorni aveva compiuto 89 anni. Il Giro è in lutto.