Tempo di Giro d'Italia, tempo di letture dedicate al ciclismo. Uno degi libri pubblicati in questa primaera e "Vicini alle nuvole" di Luca Gregorio e Riccardo Magrini, volume che ci regala il ritratto di alcuni grandi scalatori che hanno entusiasmato i tifosi. Ci ha colpito in particolare il capitolo dedicato a Claudio Chiappucci perché propone - attraverso tante testimonianze - un ritratto inedito del corrirore varesino.
All’inizio degli anni ’90 c’è stato un corridore che ha incendiato il cuore degli italiani in salita. Claudio Chiappucci. Semplicemente, El Diablo. Passato professionista con Davide Boifava alla Carrera nel 1985, il matrimonio col ds bresciano è durato per oltre un decennio (fino al 1996), portando il campione di Uboldo a vincere tappe memorabili e ad emozionare sulle grandi montagne. Eppure c’è voluto un po’ per veder maturare il buon Claudio, tanto che i primi successi arrivarono solo al quinto anno, con i timbri a Coppa Placci (arrivo in solitaria a San Marino davanti a Franco Ballerini) e Giro del Piemonte (regolando in volata 34 corridori). Insomma, anni di apprendistato e gregariato. La classica e utile gavetta, prima di trasformarsi in uno degli attaccanti più folli di sempre. Solitario in squadra ma amato dal popolo.
Il 1990, per il Diablo, soprannome che gli appiccicarono addosso gli spagnoli colpiti da come faceva il diavolo a quattro nelle tappe di montagna, sarebbe stato l’anno della svolta. Chiappucci si presentò al Giro d’Italia con alle spalle già 4 partecipazioni alla corsa rosa più un’apparizione sia al Tour che alla Vuelta. Insomma, i tempi sembravano maturi per fare il salto di qualità.
“Claudio correva nei dilettanti in una squadra di Brescia – ricorda Davide Boifava - e il suo ds era Maggioni che correva con me alla Molteni. Ero andato a vederlo a una gara nel varesotto e alla fine gli chiesi se voleva venire con me. Era un ragazzo che andava fortissimo in salita, ma soprattutto era determinato. Aveva la testa più dura del cemento. Ricordo che che dopo una caduta al Giro di Svizzera si mise subito sotto facendosi un mazzo quadrato per ritornare in sella il prima possibile. In bici era uno molto sicuro di sé. Era un entusiasta e non gli piaceva fare troppi calcoli. Tanto che al Giro d’Italia del 1990 vinse la maglia di miglior scalatore grazie al suo atteggiamento sempre offensivo”.
Con l’entusiasmo alle stelle dopo aver vinto la classifica degli scalatori al Giro, Chiappucci venne inserito anche nella squadra per il Tour de France. Dove, al secondo giorno, fece subito notizia. Claudio prese la fuga giusta con l’olandese Maassen (che vinse la tappa), il francese Pensec (secondo) e il canadese Bauer (quarto dietro al Diablo) e rifilò coi suoi compagni di avventura ben 10’35 al gruppo dei migliori. Con l’arrivo delle montagne lo scenario cambiò progressivamente. Sull’Alpe d’Huez Chiappucci prese 1’26 da Bugno e Lemond, poi cedette altri 9 secondi all’americano il giorno successivo nella cronometro di 33 km che si concludeva a Villard de Lans, ma strappò la maglia gialla a Bauer, diventando così leader della Grande Boucle, con ancora 7’27 su Greg Lemond. Il vantaggio si erose sui Pirenei e venne sostanzialmente annullato da Lemond, che a due giorni da Parigi si trovava ad appena 5 secondi da Chiappucci, con a disposizione la lunga cronometro individuale sul Lac de Vassiviere (45 km). Risultato? Tutto come previsto. Lemond inflisse 2’21 a Chiappucci, che però riuscì a festeggiare il secondo posto sui Campi Elisi, riportando un italiano sul podio francese dopo 18 anni (Gimondi 1972).
“Io però qualche rimpianto ce l’ho – puntualizza ancora Boifava -. Per me con un po’ più di attenzione e tattica Claudio avrebbe potuto vincere quel Tour. Fu significativo un momento di quella Grand Boucle. Chiappucci era in maglia gialla, ma sul Col de Mente anziché gestire e difenderci lui scelse di attaccare. Mi avvicinai in ammiraglia e gli chiesi perché stesse agendo in quella maniera e lui rispose che voleva fare spettacolo. Non a caso dopo qualche km mi affiancarono gli organizzatori del Tour in ammiraglia dicendomi “David c’est fantastique” perché erano gasati pure loro dal vedere quel tipo di azione da parte della maglia gialla. Questa fotografia in corsa inquadra bene cosa fosse Chiappucci in bicicletta. Un corridore anche disposto a perdere pur di far emozionare la gente. Questo suo atteggiamento gli ha permesso di essere amato dal pubblico e di essere ricordato. Anche oggi se Claudio entra in un bar o in un ristorante, state certi che se con lui ci sono altri 3-4 corridori del passato, riconoscerebbero lui e non gli altri. E questo è perché ha trasmesso un ricordo indelebile grazie alle sue imprese”.
Con la consapevolezza maturata e accumulata nel 1990, il Diablo era pronto a un altro step. Non a caso il biennio 1991-1992 sarebbe stato da sogno. Il primo tassello magico fu la Milano-Sanremo. Abituati oggi (e in realtà da un po’ di tempo) a immaginare la risoluzione dei conti sul Poggio, l’impresa di Chiappucci nel 1991 resta ancora oggi memorabile. Il campione della Carrera attaccò addirittura sulla discesa del Turchino insieme al suo compagno Guido Bontempi, poi rinforzò l’azione su Capo Mele seguito da Mottet, Nijdam e Sorensen, prima di restare solo con quest’ultimo su Capo Berta. Il braccio di ferro col danese si risolse sul Poggio, col Diablo che fece un’altra azione esplosiva, guadagnò sulla successiva discesa prima di trionfare in solitaria con 45 secondi proprio su Sorensen e 57 sul resto del gruppo.
Il sigillo nella Classicissima di primavera fu carburante di qualità per Chiappucci, che vinse due tappe alla Settimana Catalana, la classifica generale al Giro dei Paesi Baschi e fece due terzi posti a Freccia Vallone e Giro dell’Appennino. Claudio sembrava essere pronto per dare del filo da torcere ai rivali al Giro d’Italia. E così, in parte, accadde. Il capitano della Carrera ottenne ben 15 piazzamenti nei primi dieci in 15 tappe di quel Giro, ma non riuscì mai a vincere, chiudendo la generale al secondo posto, a 3’48, alle spalle di Franco Chioccioli. Perse da Chozas a Sestriere; da Lelli e Bugno a Selva di Val Gardena; da Chioccioli sul Pordoi e da Bugno a Brescia. Portò a casa la maglia ciclamino della classifica a punti, ma con in bocca un po’ di amaro per aver sfiorato tante volte il successo senza mai riuscirci.
Il riscatto in grande stile avvenne un mesetto dopo al Tour de France che partiva da Lione. Dovendo fare i conti con gente come Lemond, Delgado, Bugno e Indurain (che si dimostrò poi sostanzialmente inattaccabile e inscalfibile), al Diablo toccava il compito di scuotere la corsa sul suo terreno di caccia preferito. La salita. E il giorno di gloria si materializzò il 19 luglio, quando Chiappucci vinse la sua prima tappa in carriera alla Grande Boucle. Frazione numero 13, da Jaca a Val Louron. 232km coperti in oltre 7 ore di bici. Una maratona. Il classico tappone pirenaico, con dentro Tourmalet, Aspin e l’ascesa conclusiva a Val Louron. Indurain si ritrovò solo dopo il Tourmalet con un minuto di vantaggio, ma decise di aspettare uno scatenato Chiappucci che arrivava da dietro e che in classifica aveva già 4 minuti di distacco dal navarro. I due collaborarono alla perfezione sull’Aspin, passando in cima con 2 minuti su Bugno, Fignon e Mottet, mentre Lemond, alla deriva, diceva addio alle speranze di essere ancora protagonista. A Val Louron Chiappucci vinse davanti a Miguelon, che prese la maglia gialla e se la tenne ben stretta (da lì e per i 5 anni successivi) fino a Parigi. Sui Campi Elisi, ai fianchi di Indurain, Gianni Bugno secondo e Claudio Chiappucci terzo. Per il campione di Uboldo, premiato anche con la maglia a pois di miglior scalatore di quell’edizione del Tour, il riconoscimento di essere ormai entrato nell’elite dei grandi.
Il biennio 1992-1993 è infatti quello del massimo splendore per lo scalatore della Carrera. Il ’92 si apre con la vittoria al Giro del Trentino (tappa di Pampeago più classifica generale, dove chiude davanti a Roberto Conti per 35 secondi), preludio a un Giro d’Italia di alto profilo, dove però il Diablo sembra essere prigioniero della solita maledizione. Finisce otto volte nei primi 5, ma non riesce mai a conquistare una tappa. Sulle Dolomiti conclude terzo a Corvara e terzo sul Monte Bondone, poi fa quarto a Pian del Re e quarto a Verbania. Del resto a Milano arriva in rosa Miguel Indurain. Chiappucci chiude con un più che nobile secondo posto e porta a casa anche la classifica degli scalatori.
La frustrazione accumulata durante il Giro, dove ha fatto tante belle azioni ma non ha mai potuto alzare le braccia al cielo, la scarica e la trasforma in extra-motivazione al successivo Tour de France. Il teatro dove si esalta maggiormente. Dopo 12 tappe, in realtà, accusa già 3’27 da Indurain, ma il 18 luglio cerca di far saltare il banco, confezionando l’impresa più epica della sua carriera. Si va sulle Alpi. 254km da Saint Gervais a Sestriere. Claudio, già in maglia a pois, sorprende tutto e tutti. Va all’attacco subito sul Col de Saisies con altri 8 corridori, poi si scatena in discesa e sul Col de l’Iseran si ritrova da solo, con ancora 125km per andare al traguardo. In gruppo c’è apprensione per il fuori-programma messo in atto dal Diablo. Il telegiornale delle 13 addirittura dà aggiornamenti in tempo reale sul tentativo del varesino al Tour. E’ una giornata dal caldo soffocante, ma Chiappucci sembra avere le ali al posto dei pedali. In cima all’Iseran ha 2’20 su Conti e Virenque e 3’45 sulla coppia Indurain-Bugno. Restano però da scalare ancora il Moncenisio e i km che portano a Sestriere. Da dietro iniziano le mosse dei big. Indurain, Bugno, Hampsten e un sorprendente Vona cominciano a guadagnare terreno. Ma tenere il ritmo di Miguelon è impresa ardua: prima molla Bugno, poi Hampsten, infine Vona. A 2km dal traguardo Chiappucci rimane con appena 45 secondi su Indurain e sembra andare incontro alla più clamorosa delle beffe. Ma il diablo continua a spingere fra due ali di folla impazzita, trova energie insperate e si presenta all’arrivo in lacrime dopo 192km di fuga. Roba da manuali di storia del ciclismo. Alle sue spalle Vona precede Indurain, cui si è spenta la luce proprio nel finale dopo 7 ore di corsa memorabili ma torride e prosciuganti. Chiappucci sale al secondo posto della classifica generale e non lo mollerà più fino a Parigi. “Anche in questo caso – analizza Boifava – forse si poteva sognare il successo finale. Gli avversari, Bugno in testa, preferirono far rivincere Indurain piuttosto che dare una mano a Chiappucci. Ma è andata così. E comunque il capolavoro nella tappa di Sestriere, insieme alla Milano-Sanremo del 1991, sono i due gioielli assoluti della carriera di Claudio”.
Con tre podi al Giro e tre al Tour conquistati fra il 1990 e il 1993 Chiappucci è passato alle cronache come l’eterno secondo. Incapace di vincere, ma di conquistare i cuori dei tifosi con le sue azioni fatte di fantasia, azzardo e, a volte, poca logica. Avrebbe meritato probabilmente di vincere un grande giro, ma la storia non si cambia con i se e con i ma. La cosa più importante è che ancora oggi Claudio Chiappucci viene ricordato come uno degli scalatori più elettrizzanti di sempre.
E parte del suo dna è riuscito a trasferirlo, idealmente, a Marco Pantani, che ha visto sbocciare al suo fianco nel 1994 alla Carrera e di cui è stato anche compagno di camera e mentore. “Appena Pantani si mise in luce al Giro del 1994 i giornali iniziarono a parlare di presunte tensioni in casa Carrera fra Marco e Claudio – puntualizza Boifava -. Li volevano mettere contro a tutti i costi. E allora io li presi entrambi e li misi in camera insieme. Dissi a entrambi che sarebbe servito a tutti e due per cementare il rapporto e rafforzare ulteriormente la loro mentalità. Trovarono subito feeling e infatti anche in strada non ci furono mai screzi o incomprensioni fra i due. Entrambi hanno segnato in maniera profonda gli anni in cui hanno corso. Pantani era il puro scalatore. Quando scattava in salita non ce n’era per nessuno. Anche a livello fisico era l’unico che impugnava il manubrio sotto quando si alzava sui pedali. Aveva una conformazione fisica particolare che ne esaltava le doti in montagna. Peraltro Marco mi prese in simpatia sin da subito perché da dilettante, alla Giacobazzi, usava nostre biciclette. E infatti volle a tutti i costi passare professionista con me e fece il suo debutto al Gp di Camaiore. Chiappucci, come ho già detto, era un combattente, ma non era uno scalatore puro. Era imprevedibile e con uno spiccato senso per l’attacco. Comunque sono stati due ragazzi che ho sempre tratto come figli”.
Chiappucci, però, è stato un campione solitario. Non un uomo-squadra. Non un capitano come siamo abituati a immaginarlo. Almeno raccogliendo la testimonianza di chi, con lui, ci ha corso. “Lui entrò a gamba tesa in squadra – ricorda il suo compagno di tante battaglie Guido Bontempi -. Boifava e Quintarelli lo adoravano e a lui fu permesso di fare tutto ciò che voleva sin dai primissimi tempi. Per carità aveva dei grandi numeri ma c’era grande difficoltà a fare gruppo con lui. Era complicato rapportarsi con lui sia dentro che fuori dalle corse. In gara non sapevi mai cosa aspettarti. Lui era un istintivo. Poteva prendere e partire quando meno te lo aspettavi. Ogni tanto ha fatto qualche bella impresa, ma la sua anarchia tattica spesso metteva in difficoltà tutti noi, perché poi eravamo obbligati a tirare tutto il giorno per stare dentro il tempo massimo. Pensava per sé e basta. Anche quando ha vinto tappe splendide a Giro e Tour o quando ha fatto il capolavoro alla Sanremo noi non riuscivamo a gioire, perché di fatto non c’era rapporto. Oltre al fatto che gli venisse consentito tutto da parte dei direttori sportivi, Claudio non ha mai fatto nulla per farsi volere bene da noi. Vi racconto due episodi fra i tanti, giusto per farvi capire anche la poca generosità verso i suoi compagni di squadra. Un anno eravamo in ritiro in Spagna a Denia vero febbraio. Faceva ancora freddo la sera. Noi per fare una cosa goliardica provocammo Perini dicendogli che gli avremmo dato 1000 pesetas a testa se avesse fatto il bagno vestito nella piscina all’aperto dell’hotel dopo cena. Perini si tuffò e noi pagammo il nostro pegno. Tutti, tranne Chiappucci, che si dimostrò non solo tirchio ma anche incapace di fare gruppo. E forse fece ancora peggio un’altra volta: era il suo compleanno (28 febbraio) e noi chiedemmo al nostro massaggiatore di andare a prendere al bar una torta e una bottiglia di spumante, convinti che poi Claudio gli ridesse i soldi e offrisse un brindisi per tutta la squadra. Invece quando gli presentò lo scontrino, Chiappucci si rifiutò di pagare. E noi per ripicca ci alzammo e ce ne andammo, portando via torta e bottiglia. Mi dispiace raccontare queste cose, ma credo serva di lezione per far capire come non deve comportarsi un capitano. Lui come corridore ha fatto emozionare e ha messo in difficoltà gente come Lemond, Indurain e Bugno, ma aveva dei limiti caratteriali e alla fine anche tattici. È vero che senza questa impulsività magari non avrebbe realizzato certe vittorie memorabili, ma con un po’ di acume tattico e di intelligenza si sarebbe fatto meno nemici in gruppo e probabilmente avrebbe anche vinto un grande giro”.
A fare da eco alle parole di Guido Bontempi anche quelle di Beppe Martinelli, suo ds alla Carrera: “Vero che fosse un campione solitario, ma va detto che era in un team in cui era complicato fare squadra. Ogni campione tirava l’acqua al proprio mulino e non c’erano dinamiche come siamo abituati a vedere oggi. Poi chiaramente ci ha messo del suo anche lui. Comunque in Carrera sono stati 9 anni bellissimi per me, in cui ho imparato tantissimo ma in cui ho anche tribolato tantissimo per mettere insieme tutte le teste. Quando ti trovi da gestire contemporaneamente gente come Bontempi, Ghirotto, Roche, Visentini, Pantani, Tafi e altri è tutto mestiere che ti entra. Chiappucci per me, con un po’ più di fortuna e tattica, forse avrebbe potuto vincere un Tour o un Giro. Ha corso contro un mostro come Indurain e un talento come Bugno, che piuttosto che far vincere Claudio, vista la rivalità che c’era, magari dava una mano o tirava per Miguelon. Sono sicuro che Chiappucci, nel ciclismo di oggi, avrebbe vinto”.
La conclusione è affidata ancora alle parole di Davide Boifava: “La Carrera di quegli anni era uno squadrone con tante prime donne. Non era facile per i senatori accogliere un ragazzo di 21 anni come Claudio che aveva già quella sicurezza e quella sfacciataggine. Io ho sempre usato un rapporto schietto e diretto con tutti i miei ragazzi. Era una squadra vincente, con più capitani quindi con tante personalità forti. Ma alla fine con le gambe e con le vittorie chi era forte emergeva e metteva a tacere tutti i malumori”.
VICINI ALLE NUVOLE.
I GRANDI SCALATORI DEL CICLISMO MODERNO
di Luca Gregorio e Riccardo Magrini