Tanta cronometro: 73 chilometri e rotti, distribuiti in tre tappe. E tanta montagna: sette arrivi in salita, compresa la cronoscalata di monte Lussari. Volendo, ci sono anche otto occasioni per velocisti. Guardi il Giro che scatta dall’Abruzzo e lo trovi affascinante e tosto come da consolidato slogan: la corsa più dura del mondo nel Paese più bello del mondo. Ventuno tappe, 3500 chilometri, oltre 51mila metri di dislivello: per uscire in rosa da questa edizione bisognerà essere più bravi che fortunati, per non dire quasi perfetti. Delle facce note di un anno fa, non ce n’è una al via: manca l’intero podio (il vincitore Jai Hindley, i primi dei battuti Carapaz e Landa), mancano anche il quarto in classifica, nonché il migliore dei nostri dell’ultimo decennio, Vincenzo Nibali, e pure il quinto, lo spagnolo Bilbao. Ricambio completo con salto di qualità, almeno a giudicare da personaggi e interpreti designati: ecco le dieci facce che puntano a sfilare da vincitore sui Fori imperiali a Roma il 28 maggio.
Primoz Roglic. Vince perché è quello che ha fatto meglio di tutti nei grandi giri, perché deve rifarsi del 2019 quando lui e Nibali si fecero sorprendere da Carapaz, perché ha pensato solo ad allenarsi per questa edizione. Non vince perché 40 giorni senza corse possono pesare e il covid gli ha tolto Foss e Gesink.
Remco Evenepoel. Vince perché difficilmente sbaglia gli appuntamenti che contano e questo è il suo obiettivo stagionale, perché ha vinto una Vuelta al debutto, perché al Giro ha capito due anni fa cosa lo aspetta. Non vince perché qui sulle montagne più cattive troverà anche avversari più freschi.
Geraint Thomas. Vince perché è un altro che va forte su tutti i terreni, perché chi ha frequentato l’intero podio del Tour ha le qualità per fare centro anche in Italia, perché ha accanto una squadra super. Non vince perché in un Giro serve anche la buona sorte e lui sulle nostre strade non ne ha mai trovata.
Tao Geoghegan Hart. Vince perché l’ha già fatto nel 2020 ed è tornato a quei livelli, perché avere accanto Thomas può rendergli più leggera la corsa, perché a cronometro non è fermo e in salita si fa rispettare. Non vince perché la strada prima o poi farà la sua scelta e dovrà calarsi nei panni di aiutante.
Joao Almeida. Vince perché non lo spaventano né le crono né le montagne, perché è stato quindici giorni in rosa e ha chiuso due edizioni al quarto e sesto posto, perché è quello di cui si parla meno. Non vince perché sulle grandi montagne ha qualcosa in meno rispetto ai più forti e anche del suo compagno Vine.
Alexander Vlasov. Vince perché nei grandi giri si comporta sempre bene, perché con tanti arrivi in salita ha più di un’occasione per lasciare il segno, perché ha accanto una corazzata invidiabile. Non vince perché spesso butta via tempo prezioso a cronometro e dopo deve rincorrere.
Damiano Caruso. Vince perché a 35 anni non gli resta molto tempo per farlo, perché si è allenato per farsi trovare pronto a maggio, perché il Giro l’ha fatto sempre bene da gregario e benissimo quando è stato promosso capitano. Non vince perché accanto a lui scalpita l’australiano Haig e magari gli toccherà tornare aiutante.
Lorenzo Fortunato. Vince perché dopo il successo sullo Zoncolan ha preso coscienza di se stesso, perché pedalare con i migliori non è più eccezione ma abitudine, perché ha tante montagne a disposizione. Non vince perché c’è troppa cronometro e ha vicino una squadra buona, ma non come quelle dei big.
Hugh Carthy. Vince perché è maturo per fare centro in un grande giro, perché può sfruttare l’esperienza di Uran che gli corre al fianco, perché sulle salite più dure è uno che non cede mai. Non vince perché anche lui non è un drago contro il tempo e rischia di arrivare in Romagna già lontano in classifica.
Thibaut Pinot. Vince perché è la sua ultima occasione prima del ritiro, perché è il francese che più di tutti ama l’Italia, perché nei suoi due precedenti è sempre stato fra i protagonisti. Non vince perché in una grande corsa a tappe bisogna essere perfetti e non avere giornate storte come gli capita spesso.