40 anni fa, il 2 maggio 1983, scompariva Bruno Raschi, da Borgo Taro, quel giornalista sportivo di alta e forse anche di un’altra scuola, lui che veniva dall’insegnamento umanistico, e cantore massimo del ciclismo sulla Gazzetta dello Sport.
Ci fa piacere ricordarlo, noi che avemmo la sorte di essergli amici, a quanti per una età diversa purtroppo non lo hanno conosciuto o a chi ne ha smarrito la lezione. E non solo per i testi incantevoli dedicati nel prediletto quartiere del ciclismo, citiamo a memoria, confondendo i decenni, così a Fausto Coppi come a Giuseppe Saronni, così a Federico Martin Bahamontes come a Johann De Muynck, e raccolti in “Ronda di notte”, dal titolo della sua rubrica dettata dalle strade del Tour e del Giro nei primi anni ’60, in una antologia postuma curata da Gian Maria Dossena, edizioni Landoni, nel 1984.
Ma ancora e ben oltre la vanità del tempo, se ci è lecito, per due magici “fondi” sulla Gazzetta dello Sport, di altro destino. Il primo, in ordine di riguardo, è «La commozione degli sconfitti», 14 maggio 1981, di una emozione sofferta oltre le parole all’indomani dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II, dettato con l’intimo dolore di chi - come Bruno Raschi, appunto - aveva vissuto anni di Seminario.
Il secondo, invece dedicato - 14 dicembre 1980 - ad una Napoli che tornava a giocare allo Stadio San Paolo, dopo il dramma del terremoto che aveva devastato la Campania. «A Napoli si rigioca a vivere», era il titolo. Fulminante ancora oggi, di celeste auspicio, sotto le stelle di un nuovo scudetto del calcio.
E immaginiamo quel testo letto a voce suadente, per la cordiale simpatia che nutriva in tempi non sospetti per la mia città, Napoli, fregiato di quel sorriso mite che ci consolava quando da giovani scrittori ci sentivamo, nel dialogo, già vecchi. «Suvvia, caro Paolo, finchè ci sarà una “Sanremo” nuova avrai sempre un’altra primavera».
Ed era un commiato estremo, non lo sapevamo, quel saluto a Milano, e quelle sue parole più intense, alla vigilia della Sanremo del 1983, quella vinta da Giuseppe Saronni in maglia iridata. Era l’ultima da Raschi raccontata sulle pagine ancora rosa antico, e tuttora vive, della Gazzetta dello Sport. Descritta da casa, senza Negri e Gianoli, senza Torriani, da solo, incerto ben più di me, il caro Bruno, di un’altra “Sanremo” da poter amare.
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