Quando si parla di ciclismo globalizzato una delle prima cose che viene in mente sono le corse in Medio Oriente, che fino al secolo scorso erano ben lontane dal radar degli appassionati di ciclismo. Nell’ultimo decennio, in particolare, cominciare la stagione al caldo, lontano dalle temperature rigide europee, è diventata un’abitudine, a maggior ragione da quando il calendario agonistico si è allargato da fine gennaio a fine ottobre e le gare del deserto hanno potuto trovare più facilmente collocazione. Dopo il Tour Down Under, corsa australiana che storicamente apre la stagione, c’è il Medio Oriente ad attendere i corridori. In origine fu il Tour of Qatar a farsi promotore della bicicletta nella penisola arabica: nato nel 2002, si è corso fino al 2016, al termine di un progetto che ha visto la capitale Doha ospitare i Campionati del Mondo, vinti da Peter Sagan. Nel frattempo però ASO, che organizzava la gara, aveva cominciato a tessere ragnatele in tutto il Medio Oriente, dando vita al Tour of Oman a partire dal 2010 e al Saudi Tour dal 2020, appena qualche mese dopo l’apertura al turismo occidentale del regno saudita, che fino al 2019 era di fatto off-limits. Per tutta risposta RCS ha allestito il Dubai Tour a partire dal 2014 e l’Abu Dhabi Tour dal 2015, facendoli confluire nel 2019 nell’UAE Tour, che al momento è probabilmente la corsa di maggior prestigio di tutta la zona, facendo parte del calendario WorldTour.
«Dopo il Tour de France, il Tour of Oman e il Saudi Tour sono le nostre maggiori fonti di guadagno - ci ha spiegato Pierre-Yves Thouault, vicedirettore del Tour de France e direttore di corsa in Oman -. Gare come Parigi-Nizza e Giro del Delfinato, per quanto storiche e ricche di fascino, per noi sono solo un costo, non c’è guadagno, mentre con questi eventi in Medio Oriente abbiamo la possibilità di fare ricavi importanti. Allo stesso tempo, inoltre, diamo modo a questi Paesi di sviluppare il loro settore ciclistico, facendo partecipare le selezioni locali, di ravvivare la loro immagine internazionale grazie allo sport e di diversificare la loro economia, oltre ovviamente ad offrire un’importante vetrina turistica ai luoghi attraversati dalle corse. Insomma, è un bene per noi ma anche per loro».
Nel mese di febbraio abbiamo avuto la fortuna di seguire in loco, ospiti di ASO, sia il Saudi Tour che il Tour of Oman: due corse che, per quanto le loro fondamenta siano state messe dallo stesso organizzatore, sono profondamente diverse, per storia, budget, percorsi e scenari. Una cosa in comune, però, ce l’hanno: una gara di ciclismo lì è possibile organizzarla solo tra novembre e marzo, perché prima o dopo sarebbe impossibile a causa caldo torrido.
SAUDI TOUR. Prendere parte a questa corsa è un’esperienza che ogni corridore, una volta in carriera, dovrebbe provare. Non tanto per la gara in sé, ma per tutto il contesto che gira attorno all’evento. Innanzitutto bisogna partire dal presupposto che l’Arabia Saudita, dal punto di vista turistico, è praticamente inesplorata, proprio per il motivo già citato, ovvero che fino al 2019 non venivano rilasciati visti ai turisti. Poi la svolta voluta da re Salman e portata avanti da suo figlio, il Primo Ministro Mohammad bin Salman, appartenente ad una nuova generazione maggiormente progressista, ha fatto sì che anche il regno saudita, cuore pulsante dell’Islam, si aprisse per la prima volta all’Occidente. In particolare, è stato svelato un grande progetto denominato “Saudi Vision 2030”, che prevede una serie di investimenti, per un totale di 2500 miliardi di dollari, non solo in campo economico ma anche sociale e di sviluppo finalizzati a preparare il Paese ad una nuova fase, quella post-petrolifera, che possa portarli nel giro di pochi anni ad essere una super potenza a livello internazionale. Ben 100 di questi 2500 miliardi sono stati indirizzati allo sviluppo turistico della regione di AlUla, una delle più affascinanti del Regno, che si colloca nella parte nordoccidentale del Paese, nel bel mezzo del deserto, ben lontano dalle popolose città di Riyadh e Jeddah. Per farlo, è stata creata una Commissione Reale che riferisce direttamente ai vertici del Regno e si avvale di alcuni top manager a livello internazionale. Il Saudi Tour, quindi, rientra all’interno di questo grande progetto: la prima edizione, quella del 2020, si era svolta nei dintorni della capitale Riyadh, ma per uscire dall’ordinario c’era bisogno di un setting più appariscente e unico, ed ecco quindi AlUla.
«Da quando ho iniziato a lavorare per AlUla sono stati stanziati un trilione di dollari per promuovere il turismo ecosostenibile e cercare di trasformare il Paese tramite lo sport - ha detto l’americano Phillip Jones, Chief Destination Marketing and Management Officer di AlUla -. La prima volta che ho pedalato in queste zone sono rimasto ammaliato, e ora l’obiettivo è portare AlUla ad essere la capitale saudita del ciclismo, su strada ma anche fuori strada, perché gode di paesaggi unici e spettacolari, il traffico è molto limitato e il clima buono. Stiamo costruendo varie vie ciclabili e portando la cultura ciclistica. Rispetto ad un anno fa, in città ci sono già più hotel e ristoranti, l’evoluzione è in corso».
L’area è naturalmente spettacolare, soprattutto grazie alle rocce di arenaria nel bel mezzo del deserto che, con l’erosione di millenni, hanno assunto forme particolari, e per l’antica città di Hegra, che ha preservato centinaia di tombe nabatee (risalenti al I Millennio a.C.) incassate nella roccia: farci passare una gara di ciclismo, quindi, è apparsa da subito una buona idea in termini di promozione territoriale.
Sia chiaro, il turismo qui è per chi ha tasche profonde, i costi della vita sono altissimi e fuori portata per un normale lavoratore europeo. “Cose dell’altro mondo” hanno esclamato praticamente tutti i corridori con cui abbiamo avuto modo di conversare, ma proprio perché sono “cose dell’altro mondo” correre in Arabia Saudita è qualcosa che non si scorda. Il Saudi Tour non ha badato e non baderà a spese nell’organizzare i suoi cinque giorni di corsa.
Una buona parte delle squadre partecipanti alla terza edizione della gara ha alloggiato per tutta la settimana (e noi, fortunati, insieme a loro) in due resort posti all’interno della Ashar Valley, un’area di circa 15 chilometri alla quale si poteva accedere solo se si aveva una prenotazione per i resort oppure per il Maraya, una meraviglia architettonica fatta esclusivamente di specchi utilizzata per eventi e concerti (la settimana prima della corsa si era esibito Andrea Bocelli), che ha ospitato la partenza di una tappa e l’arrivo dell’ultima. I resort, l’Habitas e il Banyan Tree, sono caratterizzati da piccole casette private riservate ad ogni ospite e sparpagliate per il deserto; ogni resort occupa un’area di circa 2-3 km, ogni corridore aveva la propria villetta e per muoversi da una all’altra, oppure per andare alla reception o al ristorante, si usano biciclette elettriche o golf car. Insomma, un vero e proprio villaggio in cui ognuno ha il proprio numero civico e il proprio mezzo di trasporto. Il costo? Tra i 1.000 e i 1.500 euro a notte per ogni ospite. “Cose dell’altro mondo”, appunto.
E che dire della cerimonia d’apertura alla vigilia dell’inizio della gara, diretta tra le altre cose dall’italiana Elisa Barucchieri? Nel ciclismo cose del genere non si vedono neanche per i Grandi Giri, ma in generale la coreografia è stata degna di un evento planetario, stile Olimpiadi. “The rise of legends” si intitolava: il palco era allestito nel deserto con uno speciale design, con luci, proiezioni e ballerini fluttuanti a fare da padroni. Seta bianca e costumi di luce, video mapping sull’Elephant Rock (una roccia alta almeno 300 metri a forma di elefante), ologrammi e la cura precisa di musica e testi hanno creato un contesto il cui obiettivo era condurre lo spettatore alla visione della creazione della terra e poi delle leggende, ovvero i corridori, che hanno sfilato sul palco. Potevano benissimo essere i Giochi Olimpici, invece era il Saudi Tour. “Cose dell’altro mondo”, di nuovo.
Sia chiaro, trovare un Paese disposto ad investire così tanto sul ciclismo non può che far piacere, ma il contrasto con il contesto in cui ci trovavamo era evidente. Gli spettatori giunti per assistere alla gara si potevano contare sulle dita di due mani, lungo le strade di pubblico non ce n’era, ma d’altronde, a ben pensarci, non poteva essere altrimenti. AlUla conta poco più di 5000 abitanti e intorno c’è solo deserto, che per quanto suggestivo e fotografico sia, non invoglia la gente a prendere l’aereo (perché quest’area è lontano da tutto) per vedere la gara. In Arabia Saudita, poi, la cultura del ciclismo è tutta da costruire, e questa non la si può comprare, ma va creata con le idee. La Commissione Reale sta cercando di farlo, da quest’anno AlUla è rappresentata anche nel gruppo professionistico come name sponsor del Team Jayco AlUla: «Qualcosa si muove, a questo Saudi Tour c’era la Nazionale saudita in corsa a testarsi contro alcuni dei migliori corridori del mondo - ha detto ancora Jones -. Gli interessati alla bicicletta aumentano, ci piacerebbe riuscire a creare presto una squadra satellite saudita che compete in Europa, che possa poi fornire atleti al Team Jayco AlUla».
La volontà, insomma, c’è: il gruppo e noi con loro possiamo dire di essere stati dei pionieri nella scoperta di questa zona dell’Arabia Saudita, che ha voglia di farsi conoscere dagli occidentali facoltosi. Ah, ASO e la Commissione Reale stanno anche seriamente pensando di allestire un Saudi Tour in versione femminile per il 2024, a conferma di una maggiore apertura mentale in tutto e per tutto.
TOUR OF OMAN. Pur confinando con l’Arabia Saudita, la situazione sociale e ciclistica dell’Oman è piuttosto diversa. Non a caso si definiscono “la Svizzera della penisola araba”, dal momento che hanno cercato di mantenersi ben alla larga da qualsiasi conflitto religioso ed etnico avvenuto negli ultimi 50 anni in Medio Oriente, compreso quello civile che tutt’ora sta funestando lo Yemen, Paese confinante. La ragione di questa costante neutralità e mantenimento della pace è da ricercare interamente nella figura del Sultano Qabos, che ha governato l’Oman per ben 50 anni, dal 1970 al 2020, anno della sua morte. Dopo il colpo di Stato ai danni del padre che gli ha permesso di prendere il potere, Qabos si è adoperato nel processo di modernizzazione del Paese attuando una politica di riforme e di progetti di sviluppo, soprattutto nel settore educativo e in quello sanitario, entrando anche a far parte delle Nazioni Unite. Inoltre, il Sultano faceva parte della corrente religiosa islamica degli ibaditi, che predica tolleranza e rispetto per tutte le altre religioni. Tutto ciò ha reso l’Oman culturalmente piuttosto differente dai Paesi vicini e non deve sorprendere che sia stato uno dei primi Stati della penisola araba a credere nel ciclismo.
Come detto, dopo il Tour of Qatar - scomparso nel 2016, ma da ASO dicono esserci trattative per farlo tornare - è arrivato il Tour of Oman, nato nel 2010. Tra le gare del deserto, questa è quella meno desertica, quantomeno se si intende deserto come una lunga distesa pianeggiante di sabbia. Dal punto di vista tecnico, il Giro dell’Oman è quello che più di tutti può regalare spunti interessanti e non è un caso che l’abbiano vinta negli anni corridori come Fabian Cancellara, Chris Froome, Vincenzo Nibali e Alexey Lutsenko. La zona che interessa la corsa fin dalla sua prima edizione, ovvero quella settentrionale che comprende anche la capitale Mascate, punto nevralgico di tutta la prova, è infatti caratterizzata dalla catena montuosa dei Monti Hajar, le cui cime toccano anche i 3.000 metri, come nel caso di Jabal Al Akhdar, la Green Mountain (“Green” perché piove più spesso, ma di fatto cresce solo dell’erba medica).
Sono montagne di roccia calcarea, in pratica senza vegetazione, ma proprio per questo spettacolari, soprattutto per chi arriva dal verde delle Dolomiti come noi. Per questo motivo, quindi, è ben difficile trovare i classici piattoni che caratterizzano le altre corse mediorientali. Basti pensare che nell’edizione di quest’anno su cinque tappe ben quattro terminavano in salita, senza contare che gli arrivi di Jabal Haat e della già citata Green Mountain sono stati “mutilati”, visto che entrambi, volendo, avevano altri 15 km di scalata per arrivare alla vetta, ma ad inizio stagione è meglio non ingolfare troppo il motore degli atleti. Jabal Al Akhdar, l’Alpe d’Huez d’Oman, è però al centro dei piani per lo sviluppo ciclistico del Paese; tutta l’area dei Monti Hajar, infatti, risulta essere perfetta per training camp al caldo e ASO, in futuro, vuole lavorare proprio su questo.
In cima alla Green Mountain è presente un enorme hotel extralusso (si dice ci abbia soggiornato anche Silvio Berlusconi), che negli obiettivi della compagnia francese potrebbe essere il punto di partenza ideale per un ritiro in altura invernale di qualche squadra, magari da organizzare proprio qualche giorno prima della gara.
Lo sfarzo generale di cui abbiamo goduto in Arabia Saudita, in Oman non c’era: se al Saudi Tour all’arrivo era prevista una zona VIP con tanto di pranzo e maxi schermi per seguire la gara, in Oman c’era solo uno striscione d’arrivo, spesso posto in mezzo al nulla, pertanto arrivare troppo in anticipo rispetto alla fine della gara voleva dire restare ore a contemplare il deserto, in attesa che sbucasse il vincitore di turno. Una delle cose alla quale il Tour of Oman ancora non è riuscito a far fronte dopo tanti anni è la diretta televisiva a livello internazionale, il che è abbastanza inspiegabile visto che ormai anche le corse più piccole ce l’hanno. Quest’anno la gara veniva trasmessa da un canale locale omanita, il cui streaming era diffuso sui social e sul sito ufficiale della corsa, ma è chiaro che per valorizzare al massimo il Tour a livello mondiale ci vuole qualcosa di più. ASO ci ha spiegato che dipende tutto dalle scelte della Federazione Ciclistica Omanita, che al momento non si sente di fare questo investimento, ma la società francese sta spingendo affinché venga fatto a partire dal prossimo anno, così da non rimanere troppo indietro rispetto alle altre gare. Il Saudi Tour, per esempio, si è assicurato la diretta su Eurosport fin dalla sua prima edizione. Alla fine dei conti, è tutta una questione di budget: l’Oman ha risorse petrolifere nettamente inferiori rispetto a molti dei paesi circostanti come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, e questo poi si riflette anche sull’organizzazione degli eventi sportivi.
Proprio perché ormai è qualche stagione che il Tour of Oman si svolge annualmente nel Paese, però, la cultura ciclistica omanita sembra essere un po’ più sviluppata rispetto a quella saudita. Da quest’anno, alla vigilia della corsa, è stata inserita anche la Muscat Classic, una classica vallonata il cui obiettivo è quello di enfatizzare le bellezze della capitale omanita ma, allo stesso tempo, convincere maggiormente le squadre a sobbarcarsi la trasferta mediorientale, visto che due gare assegnano più punti utili per il ranking rispetto ad una sola. La Nazionale omanita sta crescendo, qualche corridore sta studiando il suo trasferimento in Europa per cullare il sogno del professionismo e, pur non essendoci molti tifosi a partenza e arrivo delle varie tappe, c’è da dire che tutti i centri abitati attraversati dalla corsa si facevano sentire per salutare il gruppo. In particolare, ha impressionato il numero di bambini presenti lungo la strada, tanto rumorosi quanto diffidenti nel raccogliere le borracce lanciate dai corridori. Chissà che tra quelle centinaia di bambini qualcuno non decida di andare in bicicletta o prendere in mano il futuro del ciclismo nel suo Paese.
MA CHI HA VINTO? La classifica generale del Saudi Tour si è decisa tutta sull’interessante arrivo all’altopiano di Harrat Uwayrid, una salita di 3 km al 12% seguita da un falsopiano di 8 km fino all’arrivo. Ad imporsi è stato il portoghese Ruben Guerreiro (Movistar), bravo ad anticipare in volata il nostro Davide Formolo (UAE Team Emirates) e il colombiano Santiago Buitrago (Bahrain Victorious), che poi gli sono arrivati dietro anche nella classifica finale. Per l’Italia è stata una settimana più che positiva, visti i successi parziali di Jonathan Milan (Bahrain Victorious) alle Shalal Rocks - battendo in volata niente meno che Dylan Groenwegen (Jayco AlUla) e indossando la maglia di leader per un paio di giorni - e di Simone Consonni (Cofidis) nella frazione finale di Maraya, propedeutici alla settimana magica vissuta agli Europei su pista di Grenchen. Entrambi hanno poi chiuso in Top 10, Milan 5° e Consonni 7°, insieme anche a Marco Tizza (Bingoal WB) 10°.
In Oman è andato in scena un bel testa a testa tra i giovani Matteo Jorgenson (Movistar) e Mauri Vansevenant (Soudal QuickStep), entrambi classe 1999, con il primo che ha vinto a Jabal Haat e si è preso la classifica generale, mentre il secondo si è imposto sulla Green Mountain, fallendo l’assalto alla maglia rossa per un solo secondo. Settimana di spessore per Diego Ulissi (UAE Team Emirates), che si è imposto sulle Yitti Hills e ha terminato quinto in generale, rendendosi protagonista anche di un’ottima scalata sulla Green Mountain. Alla vigilia si era svolta anche la prima edizione della Muscat Classic, una piccola Liegi-Bastogne-Liegi del deserto, vinta in una volata ristretta da Jenthe Biermans (Arkéa-Samsic), al primo successo tra i professionisti, davanti a Jordi Warlop (Soudal QuickStep) e ad un ottimo Andrea Vendrame (AG2R Citroën).