Meno duro rispetto a quello belga dello scorso anno e a quello di Imola due anni fa, il Mondiale australiano è tutt’altro che facile: raggiunge un dislivello da tappone alpino (quasi 4 mila metri), con una lunga salitona iniziale e uno strappo da ripetere una dozzina di volte, e propone una lunghezza da classica vera, 267 chilometri. Si corre tra Helensburg e Wollongong, nel Nuovo Galles del Sud, dodici anni dopo l’ultima volta di una prova iridata dall’altro capo del mondo: nel 2010, a Geelong, fu festa scandinava, col norvegese Hushovd a precedere il danese Breschel e con il nostro Pozzato ai piedi del podio con più di un rimpianto. Fra infortuni, dispersi e scelte figlie di regolamenti discutibili, in base ai quali è meglio raccogliere punti nelle corsette anziché giocarsi la maglia arcobaleno, qui mancano Roglic, il vincitore del Tour Vingegaard, il campione olimpico Carapaz e mezza Spagna, compreso Valverde ai saluti: i grandi specialisti delle classiche, e non solo, al via ci sono tutti. Ecco le dieci facce con le maggiori speranze di conquistare il mondo.
Wout Van Aert. Vince perché è l’obiettivo su cui ha fondato la sua stagione, perché non c’è percorso che possa metterlo in difficoltà, perché al Tour ha dimostrato di avere una marcia in più quando è la sua giornata. Non vince perché in carriera nelle grandi classiche si è abituato più ai piazzamenti che ai successi.
Mathieu Van der Poel. Vince perché ha ritrovato se stesso dopo un Tour difficile, perché è un altro di quelli che quando punta a un bersaglio spesso lo centra, perché col Mondiale ha un conto aperto da tre anni. Non vince perché non deve sprecare energie e non sempre la sua generosità glielo permette.
Tadej Pogacar. Vince perché ha preparato questo Mondiale meglio di tutti quelli che ha corso in passato, perché non ha digerito il secondo posto al Tour, perché quando ha in testa un obiettivo è a metà dell’opera. Non vince perché alla sua forza individuale gli avversari possono contrapporre anche la squadra.
Remco Evenepoel. Vince perché in questa stagione ha centrato tutti i suoi obiettivi, perché ha la serenità per reggere il pronostico, perché fa parte della squadra con maggior qualità. Non vince perché la fatica della Vuelta gli presenta il conto e gli tocca mettersi al servizio di Van Aert.
Julian Alaphilippe. Vince perché non c’è due senza tre, perché quest’anno la maglia iridata gli ha portato così male che qualcosa deve restituirgli, perché la sua classe gli consente di superare le difficoltà. Non vince perché dopo la caduta alla Vuelta non ha più corso e non può essere al top.
Michael Matthews. Vince perché correre in casa è un’occasione unica, perché su un percorso del genere è difficile staccarlo, perché il suo cammino stagionale è stato perfetto per arrivar pronto a questo appuntamento. Non vince perché alla fine trova sempre uno che ha un guizzo migliore del suo.
Biniam Girmay. Vince perché ha tutto per far bene su un tracciato così, perché dopo il Giro abbandonato per colpa del tappo di champagne nell’occhio è ripartito con calma, perché le ultime quattro corse le ha sempre chiuse nei primi sei. Non vince perché, per quanto predestinato, ha pur sempre 22 anni.
Ethan Hayter. Vince perché è uscito dalla Vuelta in grande spolvero, perché ha dimostrato nella crono di avere la gamba buona, perché anche lui sulle salite brevi è tra quelli che restano a bordo. Non vince perché il suo compagno Fred Wright è un altro che tiene sugli strappi e magari ci sarà da portarlo allo sprint.
Peter Sagan. Vince perché su percorsi come questo può sempre dire la sua, perché ha vinto tre mondiali in fila senza bisogno di avere una squadra accanto, perché potrebbe essere l’uscita di scena migliore per uno che ha vinto tanto. Non vince perché il feeling con i traguardi che contano sembra averlo smarrito da tempo.
Alberto Bettiol. Vince perché è l’italiano che ha più carte da giocare, perché è pur sempre l’ultimo dei nostri ad aver vinto una grande classica, perché come Andrea Bagioli è sempre in grado di inventarsi qualcosa. Non vince perché di gente forte ce n’è troppa per poter battezzare la ruota giusta da seguire.