Coppi? “Dorsale 11, due volte primo, che senza neanche i galloni di caporale aveva conquistato sul campo, non metaforicamente, i gradi di generale”. Merckx? “L’Eddy di tutti, non più uno straniero, un cognome avaro di vocali, ma una folgore nelle intemperie”. Pantani? “Riaccese vorticosamente in Italia la passione per il ciclismo, l’entusiasmo senza ritrosie nei Bar Sport di paese – perché il mondo del ciclismo è il Paese della vita – di fronte alle sue imprese sulle montagne”.
Si riconosce al volo la prosa di Gian Paolo Porreca: dolce, lieve, elegante, colta, sentimentale, romantica, incisiva. Medico del corpo, e come tale anche medico dell’anima, Porreca ha sempre interpretato la bicicletta come una medicina naturale e il ciclismo come una vita ideale. Della bicicletta e del ciclismo ha fatto uno stile anche di scrittura: articoli, ritratti, confidenze, ricordi e libri, come “Il Giro racconta” (Le Varie, 272 pagine, 15 euro), la Corsa Rosa attraverso le tappe e le storie vissute in Campania. Dal 18 maggio 1909, la terza tappa della prima edizione, primo Rossignoli nella Chieti-Napoli, “la sua rincorsa negli almanacchi e nell’immaginario popolare civile e sociale, mica solo sportivo”. Al 14 maggio 2022, l’ottava tappa della centocinquesima edizione, una Napoli-Napoli di cui l’autore non profetizzò il vincitore (Thomas De Gendt), ma di cui chissà con quanta poesia avrebbe scritto.
Porreca pedala rotondo sulla tastiera della sua macchina, una macchina per scrivere e non – come battezzato quel prototipo sconosciuto perché appena inventato dal barone Von Dries – per correre. Lo fa per campioni come Bartali (“Sacrosanta livrea Legnano, irresistibile in salita, tetragono nelle difficoltà, spartano sul passo”), ma anche per isolati come Lucio Giulio Messina (primo e unico beneventano al Giro, ventisettesimo nella generale del 1925, “e si tramanda ancora a voce di figlio in nipote dei suiveurs sanniti, che Lucio Giulio Messina quel giorno, nella Bari-Benevento fosse addirittura in fuga da solo, e che solo per la rottura di una ruota, e senza l’assistenza tecnica al fianco, e tanto ritardo nel riparare il guasto, quella tappa non l’abbia poi vinta lui”). Lo fa con educata ironia (“Non vi sarà più Van Looy, maglia Cynar, sigla confacente al logorio di una carriera al congedo, in una comparsa ultima e fugace”) o con sottile rimpianto (“Un pavido e litigioso ciclismo italiano finì interamente, salvo il modesto Nino Assirelli, nella rete a strascico lento ordita dagli svizzeri, che pure non è gente di mare”). Lo fa con i contributi di Gianfranco Coppola e di Gian Paolo Ormezzano e con pezzi personali d’archivio, testimoniando puntualmente la propria devozione a Bruno Raschi il “Divino” (“Se ricordare è vivere”).
E’, “Il Giro racconta”, fra date e tappe, ordini e classifiche, un’appassionata dichiarazione d’amore: “Il Giro non manca di ricordare, ha sempre una ragione per fondere o forgiare nuovamente l’Italia, nella sua traiettoria che sa di parabola a ogni calendario, non sarà mai un misero campionato di tenzone municipale”. Ed è anche, “Il Giro racconta”, fra stelle e meteore, gregari e grimpeur, la sua autobiografia, “l’anima sublime del ciclismo, sport terrestre con lo sguardo in alto, e vorremmo dire perfettamente in sintonia con lo spirito sentimentale della Napoli non metropolitana e non vinciuta che avevamo nostra, quella degli anni ’60”.
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