L’Agnese andava in bicicletta: “S’avventurò traballando sulla passerella, e prese la bicicletta in spalla. A metà credette di cadere nel fiume, le assi oscillavano, e la corrente rapida sotto di lei le faceva girare la testa” (Renata Viganò, “L’Agnese va a morire”).
Anche il prete bello pedalava: “Nelle ore meno fredde del pomeriggio ci si allenava sul viale della Stazione: scoprimmo così che nessuno dei due arrivava con le proprie gambe dalla sella ai pedali; allora si risolse il problema infilando una gamba nel telaio” (Goffredo Parise, “Il prete bello”).
E quanto si pedalava lungo il Po: “Apparve lo Smilzo sulla bicicletta da corsa e frenò all’americana: roba speciale che consiste nel saltar giù di sella per di dietro sedendosi a cavalcioni sulla ruota. Don Camillo stava leggendo il giornale seduto sulla panchetta davanti alla canonica e sollevò il capo. ‘Te li passa Stalin i calzoni?’ si informò pacatamente” (Giovanni Guareschi, “Il mondo piccolo”).
Si pedala sempre e comunque: “Andavo a prenderla. Con una gamba ingessata arrancavo furiosamente sulle stampelle. E lei era già ad aspettarmi. Cominciai a pedalare. Le stampelle avevano messo due ruote, una sgangherata bicicletta sia pure, bicicletta però. Ma facevo un’orrenda figura” (Dino Buzzati, “In quel preciso momento”).
Da Giovanni Pascoli a Federico Fellini, da Lord Byron a Ernest Hemingway, da Luigi Meneghello a Giovanni Comisso, da Cesare Pavese a Italo Calvino, ecco “La bicicletta” (Elleboro, 268 pagine, 15 euro), un’antologia di pedalate d’autore, tagliate e incollate, cucite e ricamate, salvate e illustrate (testi di Lorenzo Notte e disegni di Maria F. Del Vecchio). Estratti più o meno conosciuti, più o meno ciclistici, più o meno collegati in itinerari letterari. Un po’ guida e un po’ bigino, regala immagini leggere e rotonde.
Cesare Zavattini (“Straparole”) ha il senso dello spirito: “Gli emiliani non usano la bicicletta per tragitti faticosi, laboriosi, ma corti, cortissimi, o per nulla, la usano dunque come il cappello, che non si può abbandonare, poiché fa parte della persona anche quando è inopportuno. La bicicletta ha da noi qualche cosa del cane”.
Vittorio Sereni (“La poesia è passione? Gli strumenti umani”) ritrae Fausto Coppi: “Il campione che dicono finito, / che pareva intoccabile dallo scherno del tempo / e per minimi segni da una stagione all’altra / di sé fa dire che non ce la fa e invece / nella corsa che per lui è alla morte / ancora ce la fa, è quello il suo campione...”.
Meno gioia in Giuseppe Berto (“Il male oscuro”), che racconta di quella bicicletta promessa come premio. Scelto un modello da corsa, si ritroverà con uno da donna: “Con la retina alla ruota di dietro perché non si impiglino le gonne nei raggi, e mi dicono che dopo averci pensato sopra l’hanno comprata da donna perché così serve anche per le sorelle e tanto io l’adopero solo nei tre mesi dell’estate e per il resto dell’anno vado in collegio”.
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