Arriva il Giro, ci sarà anche lui? “Più probabile alla partenza da Parma che all’arrivo del giorno prima a Reggio Emilia. Per salutare gli ex colleghi, per rivedere gli amici, per ritrovare quella carovana itinerante di luci e suoni e colori, per respirare quell’aria di festa anche di mercoledì o giovedì”.
Lui, Adriano Malori. Ospite della manifestazione “Arriva il Giro!” a Reggio Emilia, ha incontrato gli studenti nella palestra dell’istituto Matilde di Canossa per raccontare la sua storia a due ruote. Gli inizi (“La prima garetta a sette anni, mancava un bambino, mi hanno chiesto se me la sentissi, ho detto di sì”), gli anni dalla categoria dei giovanissimi a quella degli under 23 (“Non è stato un colpo di fulmine, la bicicletta era nel mio dna, nel ciclismo e con il ciclismo e per il ciclismo ho imparato a stare al mondo”), le grandi vittorie (“Ma è stata una vittoria anche riuscire a combinare il ciclismo con la scuola e la scuola con il ciclismo, ci sono stati giorni in cui, per la stanchezza, dormivo con la testa appoggiata al banco, però gli insegnanti lo sapevano e mi giustificavano”), il passaggio al professionismo (“Da debuttante ho corso il Tour de France, l’ultimo posto finale è stato il premio non solo alla mia tenacia ma anche alla mia capacità di sopportare notti insonni per le ferite di una caduta”), la vittoria più emozionante (“La cronometro alla Tirreno-Adriatico del 2014, quando ho superato campioni come Cancellara, Wiggins e Martin. Chi l’avrebbe mai detto?”), l’emozione più forte (“La maglia rosa. Di notte l’ho stesa sul cuscino, di giorno me l’hanno sfilata subito. Era una tappa con una salita lunga 20 km, troppi per uno come me”).
Malori (ne ha scritto con Andrea Schianchi in “Rialzati”, Ediciclo) ha calamitato la platea degli studenti con il racconto dell’incidente che rischiava di paralizzarlo (“I medici sostengono che il mio caso sia da illustrare e divulgare nei convegni scientifici: la mia forza di volontà nel tornare a correre ha fatto l’impossibile”) e proposto regole di vita (“Se non ci fosse stato il ciclismo con i suoi insegnamenti – ordine, rispetto, disciplina -, non ce l’avrei mai fatta”), fra confessioni (“Ero un mangione, dovevo trattenermi, finché ho capito che sarebbe stato più facile rinunciare a tortellini e agnolotti concedendomi qualcosa una volta la settimana”) e confidenze (“Dopo l’incidente c’è chi mi ha mollato, ma è meglio così, era gente legata solo al successo, alla fama, alla popolarità”), episodi (“Quando mi sono ritirato da una tappa al Catalogna 2017, sono entrato in un bar, alla prima birra ho capito che avrei abbandonato le corse, alla seconda birra ho deciso che sarei rimasto nel ciclismo”), tant’è che la sua vita è quella di preparatore (“Seguo una novantina di corridori che si fidano e si affidano ai miei studi, ricerche, consigli, attenzioni”).
E la bicicletta? “Vado più forte di prima – scherza -. Solo due o tre uscite la settimana. Un po’ perché a richiederlo è la mia riabilitazione neurologica, un po’ perché ne hanno bisogno la mia testa, i miei occhi, il mio cuore”. E il ciclismo? “A fare la differenza sono ancora, e saranno sempre, più il cuore e la testa che non le gambe”.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.