Il Giro d’Italia del 2020 (il primo ai tempi della pandemia) è destinato a rimanere unico. Mai si era disputata un’edizione in ottobre e, toccando ferro indossando mascherine assimilando vaccini, mai se ne disputerà un’altra così fuori calendario rispetto al mese di maggio. Accolto con scetticismo, timore e perfino qualche critica, quel Giro si è invece dimostrato un’opportunità eccezionale non solo per i corridori, che lo pedalavano in un clima da classiche del Nord, ma soprattutto per giornalisti e fotografi, che lo raccontavano a parole e immagini in un’altra stagione, con diversi colori, atmosfere, condizioni. Anche il distanziamento dagli atleti cambiava il modo di coprire, accompagnare, tradurre la corsa.
Gino Cervi seguiva – ma spesso anticipava, a volte se ne allontanava – quel Giro d’Italia del 2020 per il Touring Club Italiano. Prima con un pezzo quotidiano per il sito dell’associazione nata nel 1894 (due anni prima della “Gazzetta dello Sport” organizzatrice da sempre dell’evento, e sempre possedendo una forte vocazione ciclistica), poi con il libro “Ho fatto un Giro”, sottotitolato “Diario di una corsa fuori stagione” (208 pagine, 14 euro). Prologo più ventuno capitoli come ventuno le tappe della corsa, ciascuno con un distico musicale e canoro, ciascuno con un pezzo fra cronaca e storia, pensieri e ricordi, sensazioni ed emozioni, confronti e incontri, ciascuno con una originale rubrica battezzata “Quello che non” e dedicata proprio a un incontro, però sfiorato e mancato.
Il Giro è sempre stato vissuto come occasione per raccontare l’Italia. I quotidiani nazionali inviavano, insieme con un cronista che sapesse di corse e corridori, uno scrittore (il “Corriere della sera” con Dino Buzzati, per esempio) o addirittura un poeta (l’”Unità” con Alfonso Gatto), per scrivere della vita. Così Cervi salta dall’attore, regista e scrittore siciliano Davide Enia al giornalista e fotografo calabrese Alfonso Bombini, ritrova il poeta friulano Pierluigi Cappello cui è intitolata la Biblioteca civica di Tarcento e il poeta romagnolo Raffaello Baldini che compose “La Chéursa”, senza mai dimenticare il territorio da Craco in Lucania (qui è stato girato, tra l’altro, il film “Cristo si è fermato a Eboli”) ad Arquà in Veneto (che divenne Arquà Petrarca per ricordare “il Fausto Coppi della letteratura europea del Trecento”), né tantomeno la corsa e i corridori dal piemontese Filippo Ganna (“Ha acceso il suo motore da regolarista ed è partito”) al vincitore finale l’inglese Tao Geoghegan Hart (“Si piazzerebbe bene nella classifica dei nomi e cognomi lunghi dell’albo d’oro del Giro: con le sue sedici lettere andrebbe sul podio, alle spalle di Costante Girardengo, diciotto, e Giovanni Battaglin, diciassette, a pari merito con Vasco Bergamaschi”), e se l’è goduta solfeggiando fra Jovanotti (“Questo è l’ombelico del mondo, / è qui che nasce l’energia”) e Fabrizio De André (“Quello che non ho è un treno arrugginito / che mi riporti indietro da dove sono partito”).
Come tutti i girini, Cervi scatta e rallenta, sprinta e divaga, zigzaga e sfiora, si rifornisce e si arrampica, tira il fiato e tira diritto. Ha fatto un bel Giro.
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