Che cosa unisce Guido Rabaioli e Raffaele Castellaccio, che parteciparono al primo Giro d’Italia, quello del 1909, ma non riuscirono a concluderlo, a Giampaolo Cheula e Paolo Longo Borghini, che di Giri ne hanno disputati quattro? Che cosa collega l’Alpe Segletta con la Cascata del Toce, il Mottarone con il Sempione? Che cosa lega Franco Bitossi, primo ad Arona, ad Alberto Contador, rosa a Macugnaga?
Il territorio. Dal 1992 si chiama VCO, V per Verbania, C per Cusio e O per Ossola, ed è quello spicchio d’Italia che sa di Nord e Svizzera, fra laghi (Maggiore e Orta) e monti (Rosa e Ologno), valli (Vigezzo e Cannobina) e strade (strette e silenziose) di grande ciclismo. E le avventure a pedali di questo territorio sono raccontate da Gianluca Trentini in “Quando il Giro...” (156 pagine, con la prefazione di Beppe Conti e il patrocinio della città di Verbania, nessuna indicazione di prezzo), “la storia delle tappe del Giro d’Italia sulle strade di Verbania e dintorni”. Dunque: tante storie nella storia.
La storia di Costante Girardengo, che qui pregiudicò il Giro d’Italia del 1920: “Poco dopo Monte Ceneri, a Lamone di Isolabella, Schierano scarta e cade – nella cronaca della “Stampa” -: nella caduta però con un ‘galletto’ della ruota anteriore urta quella posteriore di Girardengo strappando alcuni raggi. Girardengo, che non se ne accorge o che crede ad un incidente senza conseguenze, prosegue. Dopo poche diecine di metri, i raggi s’impigliano nel cerchione e gli rendono la ruota inservibile. Alle 6.28 il campione italiano è a terra, esterrefatto per la disastrosa conseguenza che gli può arrecare il banale incidente”.
La storia di Pietro De Bernardi, da Tappia, il primo corridore della zona a finire il Giro d’Italia, ancora più valoroso se si considera che gareggiava fra gli isolati, quelli non assistiti dalle case ma affidati alla sorte. Il giorno dopo la conclusione del Giro, De Bernardi, operaio alla Metallurgica Ossolana, si presentò in fabbrica pronto a lavorare, ma i dirigenti gli donarono una busta con 150 lire, la paga di un mese, e due giorni di ferie per riposarsi un po’. A De Bernardi è dedicato il libro “L’Aquila di Tappia al Giro d’Italia” di Benito Mazzi.
La storia di Luigi Malabrocca, che qui durante il Giro del 1947 con Mario Fazio s’infilò in un casolare, accolti da una donna anziana che gli domandò “ma dove andate in bicicletta con questo tempo?” e, saputo che la destinazione era Milano, suggerì “va beh ma a Milàn a pudèvan né anca col treno” (a Milano potevate andare anche in treno), li riscaldò con bicchieri di vin brulé e infine li salutò “a ma racumandi, ni adasi, da mia fas mal” (mi raccomando, andate piano, che non vi facciate del male).
La storia di Germano Barale, da Villadossola, che all’invito della Dama Bianca ospite su un’ammiraglia a “non tirare che dietro c’è Fausto”, e Fausto Coppi era ufficialmente il suo capitano nella Bianchi, rispose “ma và a dà via i ciap, se l’è mia bun da nàà, dig al Coppi che ul staga a cà” (ma vai a quel paese, digli a Coppi che se non è capace di andare, che stia a casa). Risultato: Barale fu escluso dalla formazione che avrebbe partecipato al Giro e scartato dalla squadra alla fine della stagione.
La storia di Gino Bartali, che qui il Giro continuava a viverlo anche da giornalista, scriveva a penna e – come racconta Beppe Conti – non era mai stanco: “Alla sera era in piedi a declamare aneddoti sino a tardi. Cercavamo di far finta di nulla, perché se ti vedeva in albergo e ti invitava a bere qualcosa non saresti andato a dormire prima di notte inoltrata. Un vero mito”.
La storia di Marco Pantani, che qui – l’arrivo proprio alla Cascata del Toce – ebbe l’ultimo guizzo e a 4,8 km dal traguardo attaccò, mani basse sul manubrio e in piedi sui pedali: “Diciamocela tutta – scrive Trentini -, il passo non era quello dei giorni belli ma la suggestione sì”. Al traguardo, primo la maglia rosa Gibo Simoni, Pantani confidò a Marco Della Vedova, glorioso gregario locale, “ho provato sensazioni che mancavano da tempo, peccato sia andata così, la testa c’è ma le gambe non girano come vorrei”.
Trentini si è innamorato del ciclismo da bambino, con la complicità di autografi e borracce, nell’attesa che i corridori arrivassero e nella nostalgia che i corridori, magari l’anno dopo, già ritornassero. Ha continuato ad amare il ciclismo da giornalista e qui anche da autore. Lo fa scavando nel passato, ravvivando la memoria, pedalando nel tempo
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.