Un ragazzino e una donna. Le biciclette a mano. Quella del ragazzino sembra una Roma Sport, la via italiana alla mountain bike. Quella della donna ha il doppio tubo obliquo e le retine per evitare che la gonna finisca tra i raggi. Il ragazzino e la donna scendono da una collinetta. Partecipano – non si direbbe – a un funerale. Quello di Pier Paolo Pasolini, a Casarsa della Delizia, il 6 novembre 1975.
Una mostra a Genova, a Palazzo Ducale, nella Loggia degli Abati, ricorda il poeta, scrittore, regista di cui nel 2022 ricorre il centenario della nascita: 260 fotografie, in 16 sezioni, dall’infanzia al cinema, dalle borgate al Tevere, dagli occhiali da sole alle partite di calcio, fino ai funerali, quello di Roma, dove abitava, e quello di Casarsa, dove era cresciuto. Si intitola “Non mi lascio commuovere dalle fotografie”, perché Pasolini attribuiva alla fotografia “la possibilità di cogliere una sola porzione di realtà, infinitesimale, centuplicandola” e sosteneva che la fotografia non poteva sostituire la parola “entro nessun limite. La parola non si può sostituire”.
Fotografatissimo, “il volto di Pasolini – come spiega Marco Minuz, curatore della selezione fotografica – diventa così ‘la mappa’ per leggere il suo lavoro, la sua personalità, il suo pensiero e le sue scelte. Metaforicamente la sua pelle, immortalata dal mezzo fotografico, diventa così spazio privilegiato per comprendere, con vicinanza, il percorso professionale di quell’inafferrabile uomo chiamato Pier Paolo Pasolini”.
La mostra (da lunedì a venerdì ore 14-19, sabato, domenica e festivi ore 10-19, biglietti 5-10-12 euro, fino al 13 marzo) illustra la passione di Pasolini per il calcio: le partitelle nei campetti in periferia, le partite negli stadi della serie A (uno scatto lo ritrae con la maglia del Genoa in un derby contro la Sampdoria, uomini di calcio e di spettacolo, pochi mesi prima della morte, violenta, a Ostia), c’è anche una sciarpa del Bologna, la sua squadra del cuore. Ma in Pasolini, oltre a quel ragazzino e a quella donna al funerale di Casarsa, ci sarebbe anche molta altra bicicletta.
Pasolini che intervista Viktor Kapitonov per “Vie Nuove” all’Olimpiade di Roma 1960. Pasolini che partecipa a un “Processo alla tappa” con Sergio Zavoli, nel 1969, intervistato da Vittorio Adorni. Pasolini che a un amico scrive: “Ad ogni modo una cosa bella da essere confusa con un sogno, l’ho avuta: il viaggio da S. Vito (di Cadore, ndr) a qui, in bicicletta (130 chilometri, ndr): esso appartiene a quel genere di avvenimenti che non possono essere raccontati senza l’aiuto della voce e dell’espressione. L’alba, le Dolomiti, il freddo, gli uomini coi visi gialli, le case e i sagrati estranei, le cime e le valli nebbiose irraggiate dall’aurora”.
Pasolini che continua a pedalare nel sentiero ciclopedonale a lui intitolato da Casal Bernocchi a Ostia Antica costeggiando il Tevere per 17 chilometri. Pasolini che si esalta per le imprese – ribelli, se non rivoluzionarie – di Vito Taccone e Michele Dancelli. Pasolini che in un articolo sul settimanale “Tempo” per la sua rubrica “Il Caos” del 7 giugno 1969 scrisse “il corpo di Merckx è più forte del consumo che se ne fa. Le vittorie di Merckx sono scandali”. Pasolini che in primo piano sulla copertina del suo libro “La lunga strada di sabbia” propone una bicicletta. Sella e manubrio a terra, ruote all’aria. Rovesciata. Come la sua vita.
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