La prima “macchina” era quella del capo: presenziava al villaggio di partenza per controllare, si ripresentava al quartiertappa d’arrivo per dirigere, come avvolta da un alone di potere e un’aura di autorità, tanto da essere temuta e omaggiata. La seconda “macchina” era quella dei cronisti: andava alla partenza per intervistare e filmare, correva all’arrivo per intervistare e scrivere, fra partenza e arrivo si fermava per montare e inviare, e conservava – anche a motore spento - un’aria concitata e frettolosa. La terza “macchina” era quella dei poeti: alla partenza coglieva e raccoglieva, all’arrivo scavava e approfondiva, fra partenza e arrivo – lungo il percorso della corsa – annusava e ammirava, esplorava e scopriva, recitava e dettava.
Al Giro d’Italia “La Gazzetta dello Sport” partecipava corazzata e perfino blindata: nella sala riservata alla stampa alzava un “separè” per scollegarsi dai colleghi, isolarsi, forse – inconsapevolmente – distinguersi. (A me la cosa non è mai piaciuta). E qui, tutti insieme in un palazzetto dello sport o in una scuola elementare, ma da separati in casa, prima seconda e terza “macchina”, finalmente parcheggiate l’una accanto all’altra, riformavano la squadra e costruivano – in sintonia con un’altra squadra, quella schierata nella redazione - le pagine del giornale, della corsa e perfino della storia. Tra editoriale e cronaca, interviste e ritratti, pezzi di colore e marchette di classe, chicche e curiosità, numeri e dorsali, ordini e classifiche, elenchi e comunicati, foto grandi e fotonotizie, mappe e altimetrie, infografici e vignette. Cose così. Da prima della partenza a dopo l’arrivo, quasi quattro settimane di vita. Una vita meravigliosa.
La “macchina” (continuo a scriverla fra virgolette perché era una parola-chiave del nostro gergo quotidiano, del nostro lessico familiare, del nostro glossario roseo) cui venne attribuita per la prima volta la qualifica “dei poeti” era composta da Claudio Gregori e Valerio Piccioni, inviati, e Gigi Belcredi, norcino ma in questo caso autista, anzi, “auriga” come proclamato dallo stesso Gregori. A loro spettavano i pezzi di colore, detti anche affreschi o “feuitillion” (“i fogliettoni”), un’antica eredità giornalistica, perché fin dalle prime edizioni il Giro d’Italia rappresentava una straordinaria opportunità per ruminare autentico giornalismo: andare, vedere, scrivere, cioè trovare, verificare, documentare, cioè cercare, controllare, testimoniare, cioè raccontare, narrare, tramandare. Da Dino Buzzati a Indro Montanelli, per dirne due targati “Corriere della Sera”. Da Alfonso Gatto ad Anna Maria Ortese, per dirne altri due, il primo per “l’Unità”, la seconda per “L’Europeo”. Da Luigi Gianoli a Gian Maria Dossena, per dirne due (grandi, grandissimi) della “Gazzetta dello Sport”.
“La macchina dei poeti” ha poi accolto – fra gli altri – Andrea Schianchi, Paolo Condò e il sottoscritto, tenendo come titolari inamovibili (ma in perenne movimento) Gregori navigatore e Belcredi auriga. Era sempre un maggio letterario, culturale, artistico, e atletico, marinaio, ciclistico, e volatile, onirico, aeronautico. Oggi ricordato con infinita, incolmabile, inesauribile nostalgia. Tant’è che, qualche giorno fa, l’ultima “macchina dei poeti” – detto sempre, dato il mezzo motorizzato, con autoironia e senza autocelebrazione - si è ritrovata a tavola, al Portico di Montalto Pavese, dove Gigi Belcredi gioca in casa. Grandi risate (per le risottate ripasseremo). E la promessa che, ogni 20 settembre, ultimo giorno dell’estate, si farà il tagliando annuale per controllare i livelli, non tanto alcolici e colesterolici, ma di allegria e leggerezza, insomma, i livelli da noi considerati poetici.
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