Ai primi di maggio del 1966, nell’arco di pochi giorni, vinse le due più belle classiche dei dilettanti che all’epoca si disputavano sulle strade astigiane: la Coppa Città di Asti e la Milano-Asti. Pur essendo pinerolese purosangue, Roberto Bonetto, classe 1941, merita pertanto di essere annoverato nella galleria di vecchie glorie astigiane del pedale, tanto più che mise a segno quel clamoroso bis indossando la casacca del Cavallino Rosso, il formidabile team che in quella stagione era diretto dal compianto Giacomo Toso e da Luciano Cerrato, il futuro deus-ex-machina della Coppa Città di Asti.
Ci racconti subito quelle due vittorie.
«La Coppa Città di Asti si disputava il giorno di San Secondo, il primo martedì di maggio, pochi giorni dopo la conclusione del Giro del Piemonte a tappe, che avevo terminato in crescendo di condizione. Staccai tutti sulla salita di Montemagno e vinsi con circa un minuto di vantaggio sui primi inseguitori».
La domenica successiva fece sua anche la Milano-Asti.
«Sulla salita di Crea andai in fuga con il mio compagno di squadra Balduzzi e insieme percorremmo gli ultimi 30 chilometri. Franco, che abitava a Casorzo, ci teneva moltissimo a vincere sulle strade di casa e forse sperava che, dato che avevo già vinto la Coppa Città di Asti, io non disputassi lo sprint. Ma in carriera avevo già regalato troppe vittorie ai compagni di squadra e quella volta non lo feci. E non lo feci neppure la domenica dopo nel Trofeo Strazzi ad Albenga, dove arrivammo di nuovo noi due da soli».
Tre vittorie in dieci giorni, dunque. Furono le più importanti della sua carriera?
«Sicuramente tra le più significative. Quella che mi ha procurato la gioia più grande, però, è stata la Torino-Biella del ’64, quando correvo già per il Cavallino Rosso abbinato alla Badiese, dove il direttore sportivo era Gino Vairo, originario di Montemagno. Andai forte anche nel ’65, quando indossai la maglia azzurra al Giro delle Antiche Romagne, vinsi il Trofeo Bertolino e giunsi 3° in classifica al Giro di Bulgaria, con una vittoria di tappa».
Come mai, nonostante questi risultati, alla fine del ’66 decise di appendere la bicicletta al chiodo?
«Avevo già 25 anni e nonostante le mie trenta e più vittorie non ero riuscito a passare professionista. La verità è che ero un corridore completo, che se la cavava su tutti i terreni, ma la mia eccessiva generosità in corsa probabilmente mi ha impedito di ottenere risultati ancora più importanti. Così decisi di smettere, anche perché già da qualche anno ero fidanzato con Luigina ed era ora di mettere su famiglia e di pensare seriamente al futuro».
Nessun ripensamento, poi?
«Ripensamenti no, ma qualche rammarico sì, perché un paio di proposte di passare nella categoria superiore in realtà le avevo ricevute. Ed ero stato io a rifiutarle».
E perché?
«Nell’inverno del ’62 mi aveva contattato l’ex C.T. azzurro Pierino Bertolazzo, che stava allestendo la Cynar, dove avrei gareggiato al fianco di campioni come Baldini e Adorni. Ma avevo solo 21 anni e oltretutto ero convinto di dover partire a breve per il servizio militare. Così rinunciai, commettendo un grave errore, perché poi a militare non ci andai, ma ormai l’occasione era sfumata. Nel ’65, poi, la Bianchi mi offriva 50.000 lire al mese, ma io da dilettante ne prendevo di più e non accettai, in attesa di una proposta più vantaggiosa che poi invece non è più arrivata. Si vede che non era destino. Ma il ciclismo resta un capitolo importante della mia vita e Asti l’ultima tappa, quella decisiva, della mia carriera sportiva».
da La Stampa – edizione di Asti
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