Salvò, o no, centinaia di ebrei dalle persecuzioni nazifasciste? In un nuovo libro, titolo “L’ossessione della memoria” (Castelvecchi), sottotitolo “Bartali e il salvataggio degli ebrei, una storia inventata”, autori Marco e Stefano Pivato, si sosterrebbe l’infondatezza dei racconti sulle missioni cicloumanitarie dell’Uomo di ferro, che trasportava documenti falsi per dare una nuova identità a chi era destinato a deportazioni, prigionie e gassificazioni. Stefano Pivato, padre di Marco e docente di Storia contemporanea all’Università di Urbino, avrebbe così ribaltato la tesi sostenuta nel suo “Sia lodato Bartali” (Castelvecchi, del 2018). I condizionali sono inevitabili, perché “L’ossessione della memoria” uscirà il 21 gennaio. Gian Antonio Stella ne ha parlato con lo storico e ne ha scritto ieri per il “Corriere della Sera”. Il titolo lascia spazio all’immaginazione: “L’enigma”.
Nel 2012 andai ad Assisi per “La Gazzetta dello Sport”. C’era da raccogliere una nuova testimonianza. I cronisti sono uomini (e donne) da strada. Vanno e vengono, esplorano e scoprono, rilevano e rivelano. La velocità sconfina nella superficialità. Nel mio piccolo, ma consapevole della grandezza del giornale che rappresentavo, ascoltai, guardai, confrontai, cercai – per quanto possibile – di verificare. Il teste-chiave era una suora, vecchia e fragile, ma lucida. Ripropongo il testo, pubblicato il 12 maggio 2012, durante il Giro d’Italia. Senza la pretesa di possedere la verità.
«L’ho visto una sola volta, ma me lo ricordo come se fosse qui adesso. Gino Bartali stava alla ruota, una porta girevole, che lo nascondeva quasi completamente alla vista. In silenzio. E consegnava una busta». Suor Eleonora Bifarini ha 96 anni. Nata a Ripa, un paesino a una decina di km da Perugia, il 26 aprile 1916. Origini umili, infanzia povera. Nel Monastero di San Quirico, ad Assisi, entrò a 10 anni: «Uno zio frate a Santa Maria degli Angeli, e missionario in America, diceva che la nostra famiglia aveva bisogno di un miracolo al giorno per tirare avanti, e che noi creature non avevamo possibilità, e che l’unica soluzione era che andassimo dalle monache». Cinque anni dopo decise che sarebbe rimasta lì. E 10 anni più tardi divenne Suor Eleonora, sorella clarissa di clausura, e si dedicò per sempre a Dio.
«Bartali - racconta Suor Eleonora - veniva, consegnava una busta, mangiava, poi andava nella Chiesa di San Francesco, pregava, tornava qui, ritirava un’altra busta e ripartiva. Era un messaggero, a suo modo un missionario: portava fotografie vere, ritirava documenti falsi. Li metteva nel telaio della bicicletta, forse nel manubrio, forse nel reggisella, poi con la scusa di allenarsi, li trasportava a Firenze. E così garantiva una nuova identità a uomini e donne ebrei, salvandoli dalla deportazione». Tra l’8 settembre 1943 e il 17 giugno 1944, Assisi era diventata porto, rifugio, asilo. I monasteri - le collettine francesi, le stimmatine, le cappuccine tedesche, le benedettine di Sant’Apollinare - offrivano le foresterie per esiliati, perseguitati, sbandati, evasi, fuggitivi. «Così anche nel nostro Monastero - ricorda Suor Eleonora -. Madre Giuseppina Biviglia, la badessa, cominciò a ospitare tanti disgraziati, che venivano e andavano». «Le persone che si rifugiavano da noi - scrisse Madre Giuseppina nel libro delle memorie del Monastero - furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone, e anche religiose». Cattolici ed ebrei, fascisti durante il Governo Badoglio, socialisti durante la Repubblica sociale. Madre Giuseppina concludeva: «Era proprio un’arca di Noè».
«Bartali - prosegue Suor Eleonora - faceva parte di un’organizzazione che aveva, come coordinatore, padre Rufino Niccacci, guardiano al Convento di San Damiano. Era lui a smistare i rifugiati. Ed era il tipografo Trento Brizi, di Assisi, a stampare i documenti falsi con le fotografie vere, che Bartali poi trasportava per distribuirli». Nell’operazione erano coinvolti anche il monsignor Elia Della Costa, cardinale di Firenze, il vescovo Nicolini che aveva dato gli edifici di sua competenza per farne ospedali, e il suo segretario don Aldo Brunacci. Si dice che fosse coinvolto perfino Valentin Muller, colonnello medico tedesco: si prodigò per proclamare Assisi città ospedaliera, con la proibizione alla truppe tedesche di entrare in città, e intuì che la Chiesa nascondeva e proteggeva centinaia di persone, e chiuse un occhio, se non tutti e due. «In tempo di guerra si faceva la fame - ammette Suor Eleonora - ma qui c’era sempre qualcosa in tavola. Padre Rufino riusciva a procurarsi il cibo, e a dividerlo, se non a moltiplicarlo, un po’ per tutti. Noi mettemmo a disposizione la foresteria e, quando la situazione precipitò, anche le grotte. Stanze, cunicoli, gallerie sotterranee, che collegavano il convento con la piazza del Vescovado e fino alla piazza del Comune. Un labirinto di salvezza».
Si rivelarono preziose. Il 26 febbraio 1944 due ospiti della foresteria del Monastero di San Quirico andarono a Perugia in bici. Erano un croato, già evaso da un campo di concentramento in Jugoslavia, e un ufficiale dell’aviazione italiana. Al ritorno, furono fermati da agenti della Repubblica sociale che cercavano proprio un croato: li arrestarono e interrogarono. Il croato confessò di essersi nascosto nel Monastero. La mattina dopo gli agenti circondarono il Monastero e irruppero per un sopralluogo. «Suor Giuseppina - racconta Suor Eleonora - ci disse di andare a pregare. Sperava di risolvere la situazione da sola. Cercò di resistere alle pressioni dei tedeschi, alla fine mostrò loro il dormitorio grande. C' erano due fratelli e un colonnello. I due fratelli riuscirono a entrare in clausura, il colonnello no, tentò di allontanarsi, ma fu fermato e interrogato. Poi gli agenti ispezionarono la grotta e trovarono, oltre al giaciglio del colonnello, un altro letto caldo. Le cose si misero male, malissimo. Gli agenti pretesero di ispezionare anche la clausura, altrimenti avrebbero portato la badessa in prigione. Suor Giuseppina fu decisa: “Sono pronta, ma prima munitevi del permesso, perché sono monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione”. Gli agenti si convinsero della sua innocenza e se ne andarono solo con il colonnello». Soltanto allora le suore si accorsero di avere corso altri tre enormi rischi. Il primo: «Nel cuscino del letto ancora caldo - ricorda Suor Eleonora - avevamo nascosto tutte le nostre ricchezze. Banconote di banca per 38 mila lire». Il secondo: «Nel cassetto di un tavolo nel dormitorio, c’era un disegno con i sette letti occupati da sette uomini in camicia da notte, con tanto di nomi. Una specie di tessera di riconoscimento». Il terzo: «Nella grotta, in una federa, erano state nascoste carte d' identità false, stampini di ottone per fabbricarle, una rivoltella e altri oggetti compromettenti. Suor Giuseppina, esasperata, qualcosa gettò nel fuoco, il resto nel pozzo. E ringraziò Dio». Suor Eleonora è stata badessa per 18 anni, adesso è la più anziana delle 16 sorelle che vivono nel Monastero di San Quirico, sorto ai primi del Quattrocento, prima riservato alle terziarie francescane, dal 1931 alle clarisse. «Mi sveglio alle 5, le altre cominciano a pregare alle 5 e mezzo, io ho ottenuto di farlo alle 6 e mezzo. Facciamo colazione alle 8 e mezzo, poi si lavora. Io ho ancora le mani ferme e la vista buona: con un occhio vedo bene da vicino, con l' altro bene da lontano. Una volta mi occupavo di telai elettrici, rumorosissimi, e le suore benedettine, nostre vicine, si lamentavano. Così siamo tornate a lavorare a mano. Io sono specialista del punto francescano, che voi chiamate punto croce. Senza fare niente, non posso stare. Poi ancora preghiera, pranzo, riposino, ancora lavoro, ancora preghiera, alle 7 di sera la cena, e poi a dormire. Finché Dio vuole. Gli ho chiesto solo una cosa: di lasciarmi la testa buona, il resto di prenderselo pure».
E Bartali? «Dicevano che fosse un grande campione, e che il suo avversario fosse un certo Coppi, ma io non me ne sono mai interessato molto - ammette suor Eleonora -. Però ho visto qualcosa in tv, documentari, filmati, corse, e il ciclismo mi è piaciuto». Ha conosciuto la moglie Adriana e il figlio Andrea: «Gentili e affettuosi. Con la signora Adriana, che ha quasi la mia età, facciamo la gara a chi ha più acciacchi. Io solo alle ginocchia. Adesso mi muovo in carrozzina, una specie di bicicletta. Una volta è arrivato anche un gruppo di ciclisti, pantaloncini corti e scarpe con i tacchetti, camminavano e scivolavano. Che ridicoli».