Avremmo voluto parlare qui di questo Giro concluso, il primo in tempi di pandemia, più aspra di una carestia. E scrivere della bravura immensa dei ciclisti, di quelli che lo hanno portato a termine e di quelli che invece no, e si sono fermati per un motivo o l’altro, per salute o meno, prima.
Avremmo voluto fare i complimenti pure a Mauro Vegni, anche se i nostri non contano troppo, e non ci risponderà, e intercedere con lui in nome di Thomas De Gendt e Adam Hansen, per qualche loro esternazione impropria o per aver fatto da portavoce ad uno sciopero parziale, fermandosi sotto la pioggia. (Ma ce ne fossero cento altri uguali a loro in gruppo, Mauro, tu che hai conosciuto con Carmine Castellano le vergogne e le espulsioni dei Giri degli anni 2000, per come Hansen e De Gendt hanno sempre interpretato lo spirito nomade e l’animo libero del Ciclista).
Avremmo voluto applaudire certo il Giro dei ragazzini - Gesù, ci sembra tornare al tempo e a un titolo dedicato nel ’94 per Berzin vs Pantani, post - Indurain, Pantani con i capelli ancora -, ventenni iconoclasti dell’ordine costituito, come fu Armstrong ad Oslo ’93, il nostro extragiovane prediletto Armstrong.
Ma che dobbiamo dirvi, ci parliamo addosso I know, però del futuro invadente di una rigogliosa generazione di talenti, dopo Pogacar, fra Geoghegan Hart e Hindley, con Pidcock in agguato, come fossimo ai Giochi del Commonwealth, pure simpatici e con le lentiggini e non arroganti, siamo francamente diffidenti e indifferenti. Non ci iscriviamo al cult plebiscitario di questa Scapigliatura da Rolling Stones in bici, scanzonati, ok, e per fortuna loro pure simpatici...
Niente da fare, non riusciamo a partecipare alla festa popolare, con la mascherina a schermare l’entusiasmo. Non abbiamo l’età. Non scriviamo di vittoria, ma di una sconfitta, al Giro.
Siamo portatori sani, lo sappiamo una volta per tutte, e tutte per sempre, della sindrome di Kelderman, già, la sindrome del Perfetto Perdente. Mai un successo che conti davvero, ormai a 29 anni il ciclista olandese, il Tour de l’Ain, il Giro di Danimarca, e negli ultimi sei anni poi solo una cronosquadre in Olanda, una esistenza fa, e ci mancava pure l’arrivo del bel Dumoulin a retrocederlo contro il tempo...
E dal 2013 tante cadute, esperto in clavicole, un cabotaggio fra i primi dieci o i secondi dieci, ad ogni grande corsa a tappe che si rispetti, e sempre trovarci uno più veloce più figo più decisivo di te, che ti precede semmai pure in una esangue frazione del Giro...
Siamo affetti anche noi della sindrome di Kelderman, almeno per simpatia, e sembra un liceale discreto contro il sorriso devastante sul video di quegli enfant prodige del ginnasio, che lo hanno scavalcato metaforicamente quattro anni di corso in uno, e già sono in carriera all’Università. Quel Wilco che non ha mai avuto il sole in faccia, anche quest’anno che corre per la Sunweb... La sindrome di Kelderman, già. E non suggeritelo a chi ne scriverà domani.
Con un sogno nel cassetto che nutriamo però noi per lui, di fronte alle accuse italiote di modestia e scarsità, lui non un campione psichedelico, lui intitolabile, lui, «ma di cosa parliamo, di Kelderman?».
Lui, che potrebbe sorridere in una stagione ventura, ne siamo convinti, se solo penserà a quello che fu capace di fare il suo connazionale Joop Zoetemelk, uno sempre al mozzo altrui, tanto tempo fa: vincerselo alfine un Tour de France, quello del 1980, a 33 anni scanditi, dopo uno stillicidio di secondi posti (cinque prima e uno a seguire, nel 1982).
Per guarire, senza rischio di recidive, “we Will”, in un solo giorno, dallo spritz dei giovani e dalla sindrome di Kelderman.
da tuttoBICI di novembre
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