Guardavo il Giro alla tv e pensavo ad Antonio Uliana quando mi raccontava della tappa del Bondone del 1956: “Avevo visto l’inferno, ma stava in cima a una salita, non in fondo a una discesa. Ed era bianco, non buio e nero, ed era gelido, non bollente e infuocato. L’inferno era proprio sul Bondone. Nella bufera di neve stavo vicino a Gastone Nencini, il mio capitano, che era in classifica. Lo incitavo, lo incoraggiavo, lo pregavo, lo imploravo: ‘tieni duro’. Il suo piazzamento valeva soldi anche per noi gregari, finché, all’improvviso, Nencini cadde a terra, gli occhi rivoltati, il corpo immobile, e venne caricato su un’ambulanza. Stavo così male che sull’ambulanza volevo salirci anch’io, ma Rolly Marchi, il nostro direttore sportivo alla Chlorodont, mi urlò che ero rimasto l’unico della squadra ancora in corsa, e che dovevo arrivare al traguardo. Strinsi i denti, pregai la Madonna, pensai a casa, e ci arrivai, sul Bondone, sesto, con le mie gambe”.
Guardavo il Giro alla tv e pensavo a Pino Petito quando mi raccontava della tappa del Gavia del 1988: “Da Chiesa Valmalenco a Bormio, 120 chilometri, prima l’Aprica, poi il Gavia. Pioggia alla partenza. Mi era successo di molto peggio: neve alla partenza al Fiandre, alla Roubaix e alla Vuelta. Solo che qui, stavolta, c’era una salita che ci avrebbe portato a metà strada fra Terra e Cielo. A Ponte di Legno attaccammo la salita, a Sant’Apollonia affrontammo i tornanti, appena usciti dal bosco entrammo nella tragedia. La strada era neve e fango, si seguivano i binari tracciati dalle ruote delle moto, il resto era invisibile, o nero nel buio della galleria a tre chilometri dal passo, poi ancora neve e fango, ancora vento e gelo, ancora una tormenta di cristalli. Ognuno procedeva con il suo passo, un passo da condannato a morte, avevo il 41x23, pedalavo di forza, di inerzia, ciecamente. In cima al Gavia, 2652 metri, non si capiva più nulla. I corridori s’infilavano nelle ammiraglie, nei pullmini, si stringevano, si scioglievano. Io avevo gambali, mantellina e berretto di lana. Cominciai a scendere con prudenza. Temevo di precipitare nel vuoto. Dopo un chilometro mi superarono Rosola e Bontempi: cambiati e scaldati, si buttavano giù come matti. Vidi un poliziotto, fermo, piangeva per il freddo. A metà discesa Shelley, la moglie di un corridore australiano, mi allungò una borraccia, c’era whisky, ne trangugiai metà, il resto – mi disse lei riprendendosi la borraccia – serviva per gli altri corridori della sua squadra. Non so come, arrivai a Santa Caterina Valfurva. A cinque-sei chilometri dall’arrivo vidi l’ammiraglia della Alfa Lum-Legnano ferma al bordo della strada, dentro Marco Zen e il direttore sportivo Carlino Menicagli, riscaldamento al massimo e ventola a palla, mollai la bici ed entrai, cinque o sei minuti per riprendermi, due o tre volte tentai di uscire, finché ci riuscii. Arrivai al traguardo 143° e ultimo, ultimo anche dei quattro – Longo, Zen, Cipollini, ma Cesare il fratello di Mario, e io – fuori tempo massimo. Superato il traguardo, il papà di Marco Giovannetti, un omone, mi staccò dalla bici, mi prese in braccio, mi portò in albergo, che stava vicino all’arrivo, mi introdusse in camera e mi immerse nell’acqua calda della vasca da bagno. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Rimasi a mollo mezz’ora. Intanto Valdemaro Bartolozzi, il direttore sportivo, mi fece riammettere in corsa: una vergogna, sbottò con la giuria, Petito è uno dei pochissimi ad averla fatta tutta in bici. La mattina dopo ero pronto al via”.
Guardavo il Giro alla tv e pensavo a quando Giuseppe Castelnovi, caporedattore della “Gazzetta dello Sport”, mi raccontava della Pescara-Roma del 1912: la corsa si fermò per un nubifragio, i corridori dovettero affrontare un guado, dall’altra parte non ritrovarono strada e percorso, arrivarono al traguardo in treno, gli spettatori allo stadio vollero indietro i soldi del biglietto, però la tappa fu recuperata dopo l’ultimo giorno, con una specie di Giro di Lombardia, da Milano a Bergamo, 45 chilometri in linea d’aria, 235 quelli del percorso.
Guardavo il Giro alla tv e pensavo a quando Lauro Bordin – l’ho letto sul suo libro “Carriera di un corridore artista” - al Giro d’Italia 1914, la terza tappa Lucca-Roma di 430 chilometri, dopo una ventina di chilometri fu l’unico a superare un passaggio a livello (chiuso) mentre il casellante menava chi tentava di imitarlo, poi pedalò illuminato dall’ammiraglia e tenuto sveglio dal canto del direttore sportivo e del meccanico, raggiunse mezz’ora di vantaggio, lo esaurì per una foratura di gomma e una crisi di fame, quando fu raggiunto da Costante Girardengo e altri sei si fermò in un’osteria per farsi dare pane, salame e formaggio, arrivò al traguardo settimo a un paio di minuti da “Gira”, ma con il primato della più lunga fuga solitaria, 360 chilometri, imbattibile.