Caro Direttore,
quando si sostiene che il Ciclismo è uno Sport non si dice tutta verità. È molto di più di una forma di atletismo fisico, che già di suo ha i crismi della disciplina, ovvero di regole alle quali prestare osservanza e fedeltà. Non è in discussione un fatto, inequivoco per il sottoscritto: se sono i sentimenti ad essere posti in gioco, allora la cosa è molto più seria.
Sergio Zavoli, per chi lo ha conosciuto, apprezzato e stimato e, da ultimo, rimpianto, è stato uno dei Grandi Narratori delle gesta di coloro, grandi campioni o... semplici corridori che fossero, avevano ed hanno dedicato gli anni migliori della propria vita alla disciplina ciclistica. Non era tanto l’azione o il risultato meramente agonistici ad occupare il posto d’onore nelle sue fantastiche cronache: era l’uomo che affrontava la vita in sella ad una bicicletta. Potrebbe essere liquidata come ben poca cosa a fronte delle problematicità che il Padreterno ci riserva, e delle prove che tutti, prima o poi, si è chiamati ad affrontare.
Ma significherebbe non amare il Ciclismo, soprattutto quel Ciclismo che ha nei drammi dei propri interpreti, piccoli o grandi che siano gli uni e gli altri, il profumo della Poesia. Correva l’anno 1969 e a Savona, dopo una tappa insignificante, veniva privato della Maglia Rosa tale Eddy Merckx. L’accusa, infamante, di doping. Un eterno “classico” purtroppo ancora riservato, pressoché esclusivamente, al Ciclismo. Se non si ha memoria della signorile riservatezza e, al contempo, dell’autorevole affetto che fu riservato dal Maestro al Fuoriclasse belga (non si dimentichi, nella totale solidarietà dei capitani di tutte le altre squadre, l’immenso Felice Gimondi in testa!), allora mi sento di dire, e nessuno se n’abbia a male, che non si è capito granché del Grande Ciclismo, e tanto meno lo si è amato. Con il cervello, ma soprattutto con il cuore. Sergio Zavoli docet!
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