A 40 anni, 4 mesi e 15 giorni, Alejandro Valverde è il decano del Tour de France e il senatore del gruppo. Un personaggio stimato e molto rispettato non solo per il suo straordinario palmares: un Mondiale (più altri 6 podi iridati), una Vuelta (e un piazzamento nei primi 3 anche al Tour e al Giro), 4 Liegi e 5 Freccia Vallone fra i suoi 172 successi in 19 anni di professionismo. E due stagioni, 2010 e 2011, le dovette saltare per una discussa squalifica nell’ambito dell’inchiesta antidoping Operacion Puerto.
Valverde, con quali obiettivi ha deciso di partecipare a questo suo 13° Tour de France?
«Non sono venuto qui per vincere, ma per aiutare Mas e Soler. Credo però di poter conquistare una tappa e sarebbe davvero una cosa magnifica».
Ma per uno come lei, che ha vinto tanto, cosa cambia con una tappa in più o in meno?
«A 40 anni una vittoria, quansiasi, è ancora più bella, proprio come quando si hanno 20 anni. In fondo è come se fossi tornato giovane, nello spirito e nei sogni».
Si ricorda il suo primo Tour de France, nel 2005?
«Certo. E conquistai anche una tappa, con l’arrivo a Courchevel, battendo in una volata a due Armstrong. Ricordo tutto benissimo ed è incredibile poter essere ancora qui in gruppo, fra tanti giovani di talento con i quali peraltro mi trovo molto bene».
Nel 2015 riuscì anche a salire sul podio finale di Parigi...
«E fu una liberazione, quasi la fine di un incubo, dopo tanti tentativi».
Dal suo debutto fra i professionisti, nel 2002, il ciclismo le sembra molto cambiato?
«Sì, è molto diverso. Sono cambiati i modi di prepararsi, di correre, il rendimento dei corridori, le bici, la tecnologia... Eppure io sono ancora qui, e mi sento più o meno lo stesso di una volta. In fondo sono sempre lo stesso».
Che legame ha con il Tour?
«Mi è sempre piaciuto, forse perché è durissimo, ti dà e ti prende tutto. Qui capisci fino a dove puoi arrivare».
Ma non diventa un problema, ci scusi, alla sua età?
«Al contrario, perché non sento più addosso aspettative e pressioni. Sono più leggero».
Come sta vivendo questa stagione così strana per il coronavirus?
«È un problema molto serio, che ha coinvolto tutti. In fondo ci ha anche fatti sentire più uniti. Tornare a correre era importante e le cose in fondo stanno andando abbastanza bene».
Molti pensavano che lei avrebbe chiuso la carriera quest’anno, con le Olimpiadi. E invece?
«Vivo alla giornata, quest’anno ho ancora tanto lavoro da fare. Dopo il Tour c’è il Mondiale e sarebbe fantastico rivivere l’emozione della vittoria di due anni fa a Innsbruck. Poi ci sarà la Liegi, che amo in modo particolare. E nel 2021 dovrebbero esserci i Giochi. Vorrei arrivarci, vedremo...».
Ma dove trova le motivazioni, dopo una carriera così lunga?
«Per me il ciclismo è passione e libertà, ne sono innamorato. Ha un solo difetto: mi tiene tanti mesi lontano da casa. Se il Covid ci ha dato anche qualcosa di buono, è stato poter restare più tempo in famiglia».
Il segreto della sua straordinaria longevità sportiva?
«Nessuno. Solo la passione per un lavoro stupendo, che diventa anche un piacere e ti permette di continuare a sognare».
In tutti questi anni come è cambiato il suo rapporto con il mondo del ciclismo?
«Adesso guardo tutto con maggior calma e assaporo di più le cose. È come se avessi già fatto i compiti, tutto quello che arriverà ancora sarà un regalo, un di più. Alla mia età puoi finalmente correre senza stress. Ed è persino più divertente».
da La Stampa a firma di Giorgio Viberti