Come tutti gli innamorati veri, di almeno due contesti siamo profondamente gelosi: le donne di casa, diciamo, e il ciclismo. E così storicamente, con il diritto di chi frequenta le due ruote senza motore da sessanta anni e un lustro e più, siamo stati sempre estremamente diffidenti sulle dichiarazioni di amore sperticato per la bicicletta, sinonimo di revanche ecologica e di budget in conto Unione Europea, espresse in carattere cubitale e dovizia di numeri dagli amministratori delle nostre Grandi Città.
Viva la bicicletta, come brand di futuro atossico, con bonus di sconto acquisto fuori l’angolo, a favore di un coacervo rocambolesco di bici e para-biciclette. City-bike, bici con pedalata assistita, e-bike, ohibo, bici ultra-pieghevoli, bici da barca, pinzillacchere a peso d’oro, bici da molo di Capri, un ammiccamento alla idiozia colposa dei monopattini - mia sorella a Roma inciampando su uno di questi marchingegni si è appena sfasciata un gomito -, il business ulteriore e perfido del bike-sharing.
Noi diffidiamo, da emarginati, di questa riscrittura post-moderna della bicicletta esente dal sano sudore, vantato con la penetrazione subdola di una fiction dalla nostra economia applicata al settore, tanto più in una stagione falcidiata dalla pandemia. E sia. Restiamo, noi, dalla parte dei contadini che tornavano dai campi in sella ad un arnese di ferro e borbottavano contro quei pochi ciclomotori che li sorpassavano in tromba... E sia. Viva la «bicicletta» e onore al guiderdone, e sia, ma il ciclismo che c’entra?
E in questo ambito, del tutto convinti che l’amore altrui per la bicicletta non si identifica ormai minimamente con l’amore nostro per il ciclismo, ci è parsa illuminante e lodevole l’iniziativa promossa a Napoli dall’egregio Rino Nasti, un ciclofilo per vocazione antica e assessore allo sport in passate amministrazioni cittadine. In accordo all’investimento istituzionale a favore della mobilità sostenibile, e in primis dunque della ciclabilità in senso lato, nel tessuto urbano di Napoli, così martoriato dal traffico e dall’inquinamento, Nasti ha promosso una petizione pubblica alla cittadinanza, nella finalità di creare una inedita sintonia fra la Napoli del 2020, che pretende civiltà a due ruote senza motori, e la “sua” storia ciclistica.
In questa prospettiva, che non sentiamo di parte, ma solo di corretto riguardo al passato, l’amico Nasti invita tutti i pigri o i rassegnati della città, o chi non ha mai sfogliato un foglio di sport locale oltre il calcio e il nuoto, e in un contesto metropolitano che dà tanto - se non troppo - rilievo alla toponomastica di napoletani illustri o soltanto popolari, a fare intitolare una tratta del percorso ciclabile di Napoli alla famiglia Milano, la fucina di ciclismo a corso Novara, oggi gestita da Carlo, l’ultimo della dinastia. E il nome primo di riferimento lo daremmo ad Enzo Milano, il fratello maggiore di Carlo immaturamente scomparso qualche anno fa, figlio di Mimì e nipote di quel “don” Vincenzo Milano che fu nel dopoguerra capostipite della famiglia e del ciclismo, al Borgo Sant’Antonio Abate. Quei Milano lì, senza campanilismo partenopeo all’incontrario, senza ricorso ad uno sceneggiato di comodo, che furono grandi amici di Fausto Coppi e testimoni della rinascita di un dopoguerra nazionale, solidalmente inteso.
Sarà una petizione vincente, o solo convincente, non sappiamo ancora. Ma intanto la applaudiamo sinceri, dal bastione di un tempo in cui l’amore per la bicicletta e l’amore per il ciclismo, oggi diventati voci discrepanti, sigillavano senza equivoci un comune batticuore.
da tuttoBICI di luglio
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