Sappiamo come finisce, come è finito, non sappiamo bene come sia cominciata questa storia di amore per il ciclismo e i suoi eroi, o i suoi nomi.
Certo, la distanza di allora - anni ’50, anni ’60, quando tutto ebbe inizio -, dagli eventi, con le notizie che si ascoltavano a stento per radio e si leggevano il giorno dopo sui quotidiani e molto meglio una settimana successiva, sul Ciclismo Illustrato, poniamo, creava una miracolosa piattaforma di scambio sentimentale, un limbo, se non una astanteria di ordini di arrivo e classifiche, da rovesciare a proprio piacimento, un territorio neutro eppure intimo dove la fantasia correva senza freni, liberamente.
Oggi, che la realtà ha altre cadenze, con una rapidità social e mediatica ammantata puntualmente di verità assolute un giorno e disconosciute immantinente il giorno dopo... Oggi, che una personale versione delle cose per la vita e il mondo, con la scomparsa recente di mia madre, si ammaina definitivamente, mi restano pure in cuore, senza più qualcuno che possa aiutarmi a trovare una soluzione, due domande almeno.
La prima, se vogliamo più banale, è dove mai tu - parlo a mia madre - nascondessi la chiave pesante di ferro che serviva ad aprire il portone di legno pesante della casa di campagna, dove riposava di notte al sicuro la mia biciclettina. E la mia disperazione inutile, sveglio con l’alba e il gallo - era sempre estate allora -, a restare lì senza poter entrare in quello spazio sacro. Dove nascondevate mai quella chiave? E io che smaniavo, avevo un bel nome infatti da indossare, per un giro su sentieri e tratturi, mi sarei chiamato per quella tappa del Tour e della vita bambina quel giorno Pierre Everaert, un francese della truppa di Anquetil, un po’ malinconico ed un po’ misterioso. (Viveva un dramma, in quel Tour del ’60, Everaert, ma l’avrei saputo dopo).
Ma se il fardello di quella chiave pesante, custodita (me lo avreste un giorno adolescente confessato ) in un anfratto del pollaio, per tenere a bada le mie frenesie di fuga, bene o male ha poi avuto una “chiave” di lettura, alla seconda domanda risposte non ne avrò, e non ne ho avuto mai.
Perché mai, ad un certo punto della mia infanzia, sempre ciclisticamente coniugata, ho preso l’abitudine di addormentarmi, pronunciando il nome “Vaucher”, un passista elvetico modesto? Ne ho ricercato tracce con più attenzione l’altro giorno, dopo la fine di mia madre, e ho avuto conferma che un campione non era, né tantomeno una figura particolare, certo secondo in coppia con Rolf Graf, dietro Baldini - Coppi nel Baracchi fatale del ’57, quello dei 4 secondi minimi di gap all’arrivo, ma cosa mai altro, quale risvolto di fascino poteva suggerire, chissà. Perché, invece di chiamare una governante o anche mia madre, a cui non posso più chiederlo, cercavo il sogno facendomi compagnia, confidandomi, parlando, con Vaucher? Dal nome di battesimo altero, ben diverso dal modesto destino agonistico, si chiamava infatti Alcide.
da tuttoBICI di dicembre