Vincenzo Nibali condivide la nuova avventura con il “suo” gruppo. Alla Trek Segafredo ha voluto con sé il fratello Antonio, il preparatore Paolo Slongo, il massaggiatore Michele Pallini e il medico Emilio Magni. Nel corso del ritiro a Siracusa abbiamo incontrato proprio il dottore toscano, che alla soglia dei 70 anni (portati benissimo) è l’uomo più esperto della formazione americana e allo stesso tempo uno dei più vogliosi di iniziare questo nuovo capitolo al fianco dello Squalo. La stagione 2020 sarà la sua 24a in una squadra di ciclismo professionistico, ma l’energia e l’emozione sono quelle di un ragazzino.
Riavvolgiamo il nastro. Come è arrivato al ciclismo?
«Mi sono specializzato in medicina dello sport nel 1996. L’anno successivo sono stato contattato da un collega di Pistoia, che avendo alcuni problemi di salute, mi chiese di dargli una mano in Brescialat, accettai ben volentieri di sostituirlo a qualche corsa. Iniziai con la Tirreno-Adriatico e quell’anno andai a una cinquantina di gare. Nel 1998 diventai medico sociale della squadra, l’anno dopo lo stesso gruppo venne ribattezzato Liquigas. Nel 2001 passai alla Mercatone Uno con Giuseppe Martinelli e Marco Pantani, poi feci 4 anni in Fassa Bortolo, dal 2005 passai alla “nuova” Liquigas, che poi sarebbe diventata Liquigas Cannondale, quindi ho lavorato per Astana, Bahrain Merida e ora eccomi pronto a iniziare con la Trek Segafredo».
Quanto è cambiato questo sport e la sua professione in questi anni?
«È cambiato tanto. 10-15 anni fa ai primi collegiali eravamo un terzo delle persone che siamo oggi. Ora ci sono tante figure come l’addetto stampa, il nutrizionista, il responsabile marketing che una volta non esistevano. In più si sono modificati i rapporti, prima c’era più contatto diretto: si comunicava con un bigliettino scritto a mano, una telefonata o meglio ancora una chiacchierata faccia a faccia, oggi passa tutto tramite email. Il cuore del mio lavoro è rimasto quello degli inizi, io privilegio il rapporto interpersonale. Tutto nasce per consigli riguardanti lo stato di salute, ma il rapporto va al di là del classico rapporto tra medico e “paziente”. Io resto ancorato a un certo tipo di comportamento, è chiaro che con il passare degli anni la conoscenza delle lingue straniere e dei moderni strumenti di comunicazione è diventata fondamentale. Cerco di stare al passo con i tempi e di imparare sempre qualcosa di nuovo».
Forse è questo il segreto per restare giovani. Dove trova l’energia per girare il mondo appresso ai ciclisti?
«Per 40 anni ho lavorato come medico di famiglia e ho visto tanti pazienti che una volta terminata la carriera professionale hanno avuto un tracollo, soprattutto a livello psicologico, che ho sempre voluto evitare. Mi sono ripromesso di restare attivo e pieno di interessi. Per ora viaggiare tanto non mi pesa. Mi sveglio volentieri alle 6/6.30 del mattino e fino alle 22 mi piace darmi da fare. Poi magari alle 22.15 crollo però per ora sono felice così».
A casa che dicono?
«Mia moglie Alessandra è contenta di non avermi sempre tra le scatole (sorride, ndr). Ha lavorato come preside di scuola e da un anno è in pensione, lei se la gusta molto mentre io sono ancora bello “agitato”. I figli hanno ormai preso la loro strada: Stefano, laureato in management finanziario, vive a Milano dove è impiegato in una azienda, è sposato e ha due bambini meravigliosi, che purtroppo non vediamo tantissimo a causa della distanza; Elena lavora come avvocato, vive a Prato, quindi non distante dalla nostra casa di Vaiano, ci ha già dato un bellissimo nipote, che io e mia moglie riusciamo a goderci di più, ed è in attesa del secondo figlio. Con 4 nipoti maschi, la cronosquadre l’ho quasi sistemata (ride, ndr)».
Da Pantani a Nibali, quanti campioni ha seguito?
«Tra i più noti ci sono Bartoli, Casagrande, Basso, Petacchi e Sagan. Di Peter ricordo la prima corsa da professionista, al Tour Down Under 2010. Il penultimo giorno cadde in volata, si spaccò tutto l’avambraccio, riportando una ferita di una ventina di centimetri. Andai con lui al punto di pronto soccorso allestito vicino all’arrivo e mentre aiutavo il collega a suturarlo lui stava zitto, impassibile, senza concedersi una smorfia di dolore. L’unica cosa che mi disse a un certo punto, guardandomi dritto negli occhi, fu: “Dottore, ma io domani start?”. Quella era la sua unica preoccupazione. Tornai dall’Australia con la sensazione che avevamo tra le mani un talento che sarebbe stato artefice di una grande carriera. Di ogni atleta con cui ho avuto a che fare mi restano bei ricordi “umani”. Tra mille difetti che ho, mi riconosco il pregio di essere tollerante e di sapermi adattare alle esigenze degli altri, con tutti sono rimasto in ottimi rapporti».
Il cambio di team dà nuovi stimoli a Vincenzo e a tutti voi.
«È così, noi viviamo un po’ di luce riflessa. Se lui è contento, di conseguenza lo siamo anche noi. Rispetto agli ultimi 2/3 anni lo vedo più sereno e mi fa piacere. Ho conosciuto lo Squalo nel 2006, al primo anno di Liquigas. Abitava a Mastromarco, vicino a me, e veniva con una certa frequenza nel mio laboratorio. Da allora abbiamo sempre collaborato e mi ha onorato della sua stima e fiducia. Ci siamo separati solo una stagione quando lui passò all’Astana e io rimasi in Cannondale perché ero sotto contratto e non mi potei liberare. Lavorare insieme è stimolante. Da leader e campione qual è ha i suoi momenti, quelli in cui lo devi lisciare per il verso del pelo, come si suol dire dalle mie parti, altre in cui gli si può dire anche ciò che in altre situazioni non digerirebbe al meglio. Vincenzo ha una grande volontà e grinta, offre più di altri momenti in cui bisogna conoscerlo e sapersi adeguare alle sue esigenze».
Un desiderio da realizzare prima di appendere il camice al chiodo?
«Sportivamente parlando, rivincere un grande giro con lui».
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