Il 29 ottobre 2018, a soli 26 anni, Andrea Manfredi ci lasciava a causa di un incidente aereo in Indonesia. A distanza di un anno la sua famiglia lo ricorda con il dolore nel cuore e si batte perchè sia fatta giustizia per lui e tutte le 189 vittime dell'inabissamento del Boeing 737 Max di Lion Air al largo di Giacarta.
Mamma Sonia, 46 anni, papà Maurizio, 50, e la sorella gemella Linda, dopo la pubblicazione del rapporto finale dell’inchiesta che ha accertato le responbilità di Boeing e Lion Air, assistiti dagli avvocati Filippo Marchino e Margherita Giubilei dello studio legale californiano The X-Law Group, hanno depositato al tribunale di Chicago una causa di 83 pagine contro Boeing. Su Il Corriere delle Sera Leonardo Berberi spiega che sarà l’unico contenzioso legale negli Usa: le altre vertenze, per un principio anglosassone, passeranno per i tribunali indonesiani data la nazionalità delle altre vittime. I legali accusano il colosso aerospaziale americano di aver venduto un aereo difettoso, di averlo consegnato alle compagnie senza far sapere che c’era il sistema anti-stallo, di non aver spiegato ai piloti come spegnerlo e di aver costruito un software che privilegiasse il computer nei «conflitti» con l’uomo.
I genitori di Andrea, professionista dal 2013 al 2016 e al termine della carriera agonistica fondatore di Sportek, sperano che il figlio possa diventare il paladino di tutti i morti di quel volo. «Vogliamo venga fatta chiarezza, il mondo deve sapere cos’è successo, l’incidente era evitabile».
«Ci andiamo tutti i giorni in camera sua» raccontano i genitori. «Guardo le sue foto sui social, rivedo i video su YouTube in cui ci ringrazia dopo aver vinto una gara — aggiunge il papà —. Sto male, poi sto bene». Decollato alle 6.20 del mattino dalla capitale indonesiana (le 00.20 in Italia) con destinazione Pangkal Pinang il Boeing 737 Max della low cost asiatica ha fatto perdere le sue tracce dopo tredici minuti. Per ventisei volte i piloti hanno lottato contro il sistema anti-stallo che portava erroneamente giù il muso del velivolo perché riceveva informazioni sballate da un sensore esterno. Il meccanismo, chiamato «Mcas», non era stato inserito nei manuali di volo. Comandante e primo ufficiale ne ignoravano l’esistenza.
Andrea «era il perno economico della famiglia». Aveva avviato una ditta edilizia che gestisce il papà e aperto un negozio di antiquariato affidandolo alla mamma. Nell’ottobre di un anno fa era andato a Hong Kong e in Indonesia per lavoro. «Doveva tornare il 1° novembre». L’ultima volta si sono sentiti prima del decollo. «Appena atterro vi avverto», le ultime parole. Poi il silenzio. Nessuna telefonata alle 8 del mattino al papà, come faceva sempre. Nessun accesso a Messenger nelle ultime dieci ore. Il cellulare irraggiungibile. «Poi sono andata su Facebook e ho letto di questo incidente», aggiunge la mamma. Non lo collega alla sorte di suo figlio, «ma avevo questa sensazione per nulla positiva». Fino a quando, tornando a casa, si ritrova all’ingresso i carabinieri, i funzionari della Farnesina, un’ambulanza. Sullo sfondo, mentre ai genitori viene spiegato quel che si sa, i quattro cani abbaiano: tra loro c’è anche Cocò, «il preferito di Andrea». «Penso agli ultimi minuti di mio figlio su quel volo, a quello che può aver provato e pensato — si dispera la donna —. È morto da solo, senza nessuno che conoscesse al suo fianco. Mi perseguita, non riesco a darmi pace».
Il 10 marzo 2019 un Boeing 737 Max di Ethiopian Airlines si schianta dopo il decollo vicino ad Addis Abeba. Perdono la vita in 157, di cui 8 italiani. Nei tre giorni successivi le autorità di tutto il mondo mettono a terra l’aereo. Oltre sette mesi dopo i 737 Max sono ancora fermi.
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