Di tutta questa estate bella piena, mi resta impressa soprattutto una frase, diffusa via social da Djokovic dopo la vittoria a Wimbledon contro Federer: «È stato un match in cui è successo di tutto, una partita che trascende dal nostro sport. Sono eternamente grato di averne fatto parte. Grande rispetto per Roger Federer e per la nostra lotta titanica. È stato un grande piacere fare la storia e condividere il campo, ancora una volta, con la leggenda del nostro sport».
Me la sono copiata-incollata sul computer, perché mi sembra davvero una pagina indimenticabile. Più della stessa finale, che resta a quanto pare nella suite imperiale delle famose partite del secolo. A mio avviso, è una dichiarazione che tocca un tasto essenziale e primario di tutte le sfide, sportive e non sportive: più è grande l’avversario, più è grande la vittoria. Per questo, al grande rivale bisogna essere eternamente grati, altro che invidie e rancori.
Strada facendo, sempre in questa strana estate, se n’è andato anche l’amato Gimondi, facendosi un bel tuffo nelle acque dello Stretto. E ancora il tema è tornato fuori in tutta la sua insondabile portata: Eddy per primo a riconoscerlo, senza il Gim non sarebbe mai lo stesso Merckx che ora tutti celebriamo (lo ripeto ancora una volta, già che siamo in argomento: Eddy è nettamente il più grande di sempre, a dispetto delle arrampicate sofiste di chi dice lui il più forte e Coppi il più grande, o qualcosa del genere, insomma una chiacchiera tanto per fare i patrioti ottusi). Sì, niente Merckx, almeno in questo modo, senza quel Gimondi.
E il primo a riconoscerlo, come Djokovic a Wimbledon, è proprio Merckx, tra accorate e sincere lacrime.
C’è poco da raccontare: per fare leggendaria una vittoria, per rendere immortale un campionissimo, serve prima di tutto un enorme rivale. Più è grande, più sarà grande poi il piedestallo per chi lo batte. Che cosa può restare di un vincitore che batte pisquani qualunque, magari in competizioni ancora più pisquane? Può numericamente arrivare a mille trionfi, a un milione di trionfi, ma resterà proprio pochino, nei secolo dei secoli. Bastano pochi riferimenti. Pensiamo a Coppi senza Bartali (e viceversa), a Moser senza Saronni, a Indurain senza Bugno, ad Armstrong senza Pantani, o uscendo dall’orticello nostro a Senna senza Prost, a Messi senza Ronaldo, eccetera eccetera.
Lo dico senza esagerazioni: il campione dovrebbe essere il primo a tenersi caro il suo antagonista, a coprirlo di coccole e regali, a tenerlo sotto una campana di vetro, perché è la sua assicurazione personale per una rendita futura di gloria e di mito. L’idea che possano e debbano odiarsi fa parte delle cose: mentre gareggi contro un tizio che ti fa dannare e soffrire, il primo istinto è passare da Leroy Merlin per comprare una motosega e poi fare a pezzi il nemico, con gusto sadico e chirurgico. Ma un conto è l’istinto agonistico della lotta all’ultimo respiro, altro è la riflessione che deve seguire a mente fredda.
L’idea che Djokovic e Merckx, in momenti diversi, per motivi diversi, abbiano colto e manifestato alla perfezione questo incantesimo della rivalità è molto bella. Così deve essere. Così deve finire. L’odio vero di tanti momenti aspri e cattivi, alla fine della partita, alla fine della carriera, riesce a trasformarsi in qualcosa di opposto, impensabile e però tremendamente romantico: l’odio si rigenera in gratitudine. E alla fine l’ossessione del nemico si scioglie nella più poetica delle scoperte: il nemico diventa per sempre una parte di se stessi, una parte complementare e necessaria senza la quale non esisterebbe neppure il campione. Quanto aveva ragione Seneca: le divinità infliggono ai migliori le sfide più estreme contro gli avversari più forti, perché solo quelli che superano questi ostacoli sono i migliori davvero. Duemila anni fa. Digli scemo.