Mi è piaciuta tanto la furibonda discussione scoppiata il mese scorso al Giro, in occasione della squalifica di Viviani nella famosa volata di Orbetello. Solo un riassunto flash: campione d’Italia impallinato dal Var per deviazione scorretta sul naso del baby Moschetti.
Ovviamente la discussione non nasce lì e tanto meno si ferma lì. L’idea che la tecnologia occhiuta vada a incidere sui risultati della strada continuerà a sollevare applausi e obiezioni da qui all’eternità. Di certo, il fascino del dibattito non sta tanto nel singolo episodio, Viviani scorretto sì Viviani scorretto no: da questo punto di vista, ciascuno resta sempre della sua opinione. Il vero nocciolo resta sempre quello più generale e più alto, cioè: il Var deve avere potere assoluto, intervenire quando e come vuole, in tribunale direbbero procedere d’ufficio, oppure deve entrare in gioco solo su richiesta, quando una delle parti in gioco solleva il dubbio?
Concretamente, la discussione è già finita, perché il ciclismo ha scelto decisamente la prima soluzione, cioè Var autonomo e indipendente, pronto a intervenire in qualunque momento e su qualunque situazione. Ma il tema affascinante resta: è giusto o è sbagliato? Meglio: è adeguato o è eccessivo, posizione equa o troppo invadente?
Personalmente, parto da un presupposto: l’occhio umano è limitato e fallibile. Il suo campo visivo non permette di coprire tutta la realtà. Tanto meno in una corsa. Men che meno in una corsa. Allora: anche se può sembrare un po’ frustrante, persino poco romantico, io dico grazie a qualunque mezzo artificiale che ci aiuti a essere meno imprecisi, meno approssimativi, meno erronei. Dunque, benvenuto il Var. O sua sorella la Var, a seconda di come vogliamo chiamare i rampolli della famiglia Replay.
Accolto con un caloroso benvenuto il potente mezzo elettronico, si passa al punto due: deve intervenire solo su richiesta, come un commensale molesto e invadente, oppure deve muoversi sempre e comunque, a prescindere dalle nostre sollecitazioni? I casi reali pongono spessissimo questo dilemma. Quello di Viviani è lì a dimostrarlo. Dopo la volata, nessuno dice niente. Nessuna protesta. La vittima Moschetti incassa e torna in albergo serenamente, addirittura si arriva al punto che il vincitore a tavolino Gaviria scagiona il colpevole, scusandosi di avergli portato via una giusta vittoria. È un caso estremo, il caso ideale per ragionare: giusto o non giusto che il Var si immischi anche senza che nessuno sollevi il dubbio? Senza che nessuno protesti?
Come ho anticipato, la discussione non si pone più, perché il governo delle bici ha scelto l’intervento d’ufficio, sempre e comunque, senza bisogno di reclami e proteste. Ma è giusto? Conviene davvero sia così? Al capolinea della riflessione, posso solo esprimere la mia dichiarazione di voto: sì. È giusto, conviene sia così. Io non ne posso più di giudici e arbitri che si muovono solo su sollecitazione di piazzate e sceneggiate. Non ne posso più della giustizia che premia chi urla di più. Basta, lasciamolo ad altri settori questo ciarpame. Proviamo ad alzarci dagli umori e dagli interessi umani, affidando alla fredda oggettività di una macchina il potere di assolvere o condannare. Quando c’è, quando è possibile. Perciò, mano libera al Var. I ciclisti devono sapere che è finita la vecchia tradizione, quella per cui il più bravo è il più furbo, più bravo a farla sporca senza farsi beccare. Il Var sempre acceso, sempre presente, sempre pronto è il migliore antidoto al tarocco, dal più grave della carognata in volata al più furbetto del traino in fondo alla corsa.
Poi lo so benissimo da me quale sia il problema restante: anche la macchina, sempre accesa, sempre pronta a intervenire, in tutti i casi, senza richiesta, è guidata comunque da un uomo. Ma questo, per quanto ne so, resterà sempre un problema insolubile. Sull’infallibilità degli uomini io non punterei neanche un cent.