Caro Carapaz, le scrivo due righe perché mi sento in dovere come italiano di porgerle scuse sincere e anche un po’ imbarazzate. Da quando ha preso la maglia rosa a Courmayeur, il mio Paese si sta macchiando di una grave scortesia nei suoi confronti: la definisce il nuovo Chiappucci. Parlano di lei come di un sosia, ma ancora peggio credono di celebrarla così come grande ciclista.
Sono sincero: dal punto di vista fisico, vedendola tutti i giorni, trovo solo una vaga somiglianza. Secondo me, caso mai, è Chiappucci che ricorda un po’ lei e il suo popolo, per via di quei tratti somatici vagamente amerindi. Ma non stiamo a specificare troppo: la vaga somiglianza in qualche modo c’è. Però bisognerebbe fermarci tutti lì, alla curiosità da fotoricordo.
Qui invece stanno montando tutta una storiona per arrivare a concludere che lei è anche il nuovo Diablito, cioè un Diablo un po’ più piccolo. E’ a questo livello che sento il dovere di frenare. Di inchiodare. Meglio essere subito molto chiari, prima che si creino brutti equivoci. Mi dissocio radicalmente dal paragone e passo subito alle scuse.
Scusi, Carapaz, per questa carapazzia tutta italiana: è un paragone da carapazzi, che può essere azzardato soltanto da un popolo di carapazzoidi.
Nel mio piccolo, voglio dirle che vedo bene la differenza e non c’è pericolo che faccia confusione. Mi è perfettamente chiaro che a 26 anni appena compiuti lei ha già vinto più tappe al Giro di quante ne abbia vinte Chiappucci in tutta la sua celebrata carriera (lui è fermo al numero uno, lei tre). Mi è perfettamente chiaro che ha già vestito più volte la maglia rosa di quanto sia riuscito a lui in tutta una vita (mai). E a quanto pare, sempre restando ai freddi risultati, lei è molto vicino a vincere quel grande giro che Chiappucci ha sempre visto col binocolo.
Ma è allargando la visuale dalla nuda statistica che la differenza appare in tutta la sua abbagliante evidenza. Chiappucci si rivelò – come lei – da outsider, grazie a una fuga da lontano nel Tour del 1990, con vantaggio monumentale. E’ difficile da credere, ma quella volta riuscì comunque a perdere il Tour: inseguendo cocciutamente, per pura ripicca personale, un certo Pensec, finì per regalare la maglia gialla al campione vero Lemond.
Non dovrei nemmeno insistere nelle sottolineature: lei è in maglia rosa grazie all’asinata di Nibali (e Roglic) a Courmayeur, ma da lì in poi lei si è guardato bene dal correre alla viva il parroco, piuttosto ha dato subito prova di una straordinaria lucidità, quella sì da vero campione maturato in fretta. Non uno scatto sprecato, non una mossa inutile, solo colpi letali da gelido killer. Mai staccato dai rivali, li ha sempre staccati.
Devo specificare: sono tifoso di Bugno della prima ora. Ma volentieri ho seguito e raccontato anche la carriera di Chiappucci, ogni giorno però notando la profonda differenza tra i due: Bugno un fuoriclasse mai convinto del suo dono, Chiappucci un buon corridore troppo convinto d’essere fuoriclasse.
La preferenza personale, comunque, non mi hai mai annebbiato la vista. Ho sempre cercato di separare simpatie e fatti oggettivi. Ma anche sforzandomi allo spasimo, Bugno è rimasto Bugno, Chiappucci è rimasto Chiappucci. La stessa differenza che c’è tra un Giotto magari un po’ svogliato e un formidabile imbianchino.
Ecco perché oggi, a tanti anni di distanza, mi sento in imbarazzo davanti a questo coro di neochiappucciani, che sembrano averla adottata come replicante del loro mito. Si guardi da questi complimenti, Carapaz: non ci caschi. Lei è Carapaz e basta.
Rassicurante, per quanto mi riguarda, notare come in conferenza stampa lei abbia preferito parlare di un altro modello, cui davvero vuole ispirarsi: Pantani. Bravo, non si confonda. E se mai le capiterà di sentire ancora certe diffamazioni – Carapaz il nuovo Chiappucci – non risponda neppure: passi direttamente la pratica ai suoi legali. C’è terreno per vincere la causa a mani basse. Lei sta a Chiappucci come io sto a Rita Pavone.