Di questa Sanremo butterei a mare soltanto la nuova moda dei baffetti da sparviero: ragazzi, siete da un secolo l’emblema del maschio maciste fachiro, con queste guarniture alla Clark Gable non vi si può proprio guardare.
Tutto il resto, tenerlo stretto. Soprattutto, il vero capolavoro di questa corsa inaffondabile: lo smantellamento scientifico dei luoghi comuni. Il primo e il più granitico: è un terno al lotto, talmente facile e noiosa da potersi risolvere nel modo più impensabile e stravagante, in un modo qualunque, premiando un corridore qualsiasi. Come a dire: è la corsa anacronistica e fuori tempo, senza logica e senza giustizia. Tant’è vero che da anni ci dobbiamo sorbire le grida delle prefiche addolorate, basta con questo percorso, aggiungiamo salite, facciamola più dura e più selettiva. Così, tanto per svergognarla e umiliarla, al cospetto della Roubaix e del Lombardia, della Liegi e del Fiandre, quelle sì corse serie.
Alle volte, le combinazioni: in questo deriso campionato mondiale dell’eccentrico e del futile, del casuale e dell’inattendibile, domina e vince il più forte corridore del momento. Il vero numero uno. Se c’è una corsa che non lascia alcun margine alla pur fervida fantasia dei ma-se-peròisti, nessuna recriminazione, nessuna chiacchiera gratuita del senno di poi, niente di niente, questa è la Sanremo di Alaphilippe. Non c’è un cane che se la senta di dire che non abbia vinto meritatamente, magari per una botta di, magari sfruttando furbescamente uno sfondone degli altri o una irripetibile congiunzione astrale. Proprio no. Tutti zitti e muti con il doveroso rispetto. Il dominio del francese è assoluto e schiacciante. Il suo film è da oscar all’unanimità: prima domina sul Poggio, con l’atteso e puntuale attacco per la soluzione solitaria, ma quando questa evapora e svanisce, eccolo allora pronto con il piano B, là dove non è così facile prevederlo, uno sprint da dominatore.
Niente da aggiungere: la Sanremo, la futile e stupidotta Sanremo, consegna la corona al vero dominatore di giornata. E della primavera. Senza margini di dubbio. In aggiunta, basta guardare l’ordine d’arrivo per comprendere come il verdetto sia attendibile e rispettabile nel suo complesso. Non so quante Liegi e quante Roubaix possano vantare la stessa, inespugnabile, indiscutibile giustizia.
A margine, una nota diciamo di ciclismo geopolitico: questo Alaphilippe corona di fatto il lunghissimo, doloroso, impervio processo di resurrezione del ciclismo francese. Si parla di decenni. Il che dovrebbe tornare utile anche a noi italiani, ultimamente precipitati in un clima di depressione psicotica. Parliamo di fine e di morte, come se il nostro ciclismo in fondo non fosse ancora capace di esprimere comunque un bel Trentin in coraggioso tentativo da finisseur e un commovente Nibali, che spara tutte quante le poche cartucce del momento per farsi vedere nel grande finale, comunque con un ottavo posto nello sprint dei signori dello sprint.
Ma volendo anche seguire l’onda della depressione, andiamoci piano con le conclusioni bibliche: siamo sicuramente in un periodo di crisi, abbiamo sicuramente cominciato una nostra dolorosa attraversata del Mar Rosso. Proprio come i francesi a partire dagli anni Novanta. Però calma e pazienza: bisogna accettare il purgatorio e tenere i nervi saldi. Sono i cicli della storia. Sapendo resistere e sopportare, lavorandoci sopra con passione e umiltà, presto o tardi anche noi troveremo il nostro Alaphilippe, il Mosè che ci porterà fuori dal Mar Rosso. Una volta si chiama Bugno, un’altra volta Pantani, un’altra ancora Nibali. Il ciclismo italiano non muore finchè non muore la passione.