Decide partenze e stabilisce arrivi, ma non è il patron del Giro d’Italia. Fissa obiettivi e programma tempi, ma non è un team manager. Compila tabelle di marcia e gradi di difficoltà, ma non è un direttore sportivo. Accompagna lungo il percorso e soccorre in caso di bisogno, ma non sta su un’ammiraglia. E, a suo modo, tira, spinge, insegue, si arrampica e soffre, insomma pedala, ma non è un corridore. Lo era, ma non lo è più. E ora è molto di più.
Smesso di correre, Alessandro Malaguti, sei anni da professionista (dal 2011 al 2016) e tre vittorie da giramondo (in Uruguay, Francia e Giappone), ha ricominciato a correre: la laurea (la sta ancora inseguendo) in Scienze Motorie, uno studio (Rehab nella sua Forlì) di riabilitazione, una squadra (interna, di collaboratori, ed esterna, di atleti di qualsiasi livello e grado, anche grado zero) che è il suo pane quotidiano, spesso anche sabato e domenica.
“Tre fisioterapisti più uno specialista nella nutrizione, uno nella psicologia, io nella preparazione atletica. Sopra di noi, una palestra con corsi che vanno dalla ginnastica posturale a quello che conduco io, si intitola ‘Power Workout’, dedicato agli atleti di ‘endurance’, cioè resistenza, attività aerobiche, dalla corsa al ciclismo. Sto riuscendo nel mio sogno: rimanere nel mondo del ciclismo facendo del ciclismo il mio lavoro. E il Giro d’Italia di quest’anno è come se lo avessi corso anch’io, studiando, aiutando, rivivendo tutta la gara con uno dei miei assistiti, Alex Turrin”.
“Gnula” – così lo conoscono tutti, a Forlì e nel ciclismo (nella foto con Matteo Malucelli) – era un bambino cicciottello (“La prima corsa, dalle parti di Cesenatico, a otto anni, come G3: non capivo niente, non sapevo niente, ma sono arrivato in fondo”), era un ragazzino appassionato (“La prima bici era una Oriello, di un artigiano forlivese, per la Ciclistica Forlivese, grigia metallizzata, bella più di una Ferrari rossa”), era un corridore ma non un campione (“Avevo più testa che gambe, e poi voglia, e poi metodo, e così sono riuscito nell’impresa di tirare fuori dal mio ‘motore’ il 120 per cento”). La memoria è un archivio di godimenti (“La vittoria alla Route Adélie, in una giornata di bufera che sarebbe piaciuta a Noè, Noè quello del diluvio universale e dell’arca”), anche di cotte (“Almeno una decina, una perfino in allenamento: primo anno da dilettante, febbraio o marzo, mattina a scuola, il lungo il pomeriggio per preparare la Piccola Sanremo, 7-8 volte un circuito con una salita di un paio di chilometri, parto a tutta, e alla fine mi suicidio, come sia riuscito ad arrivare a casa ancora me lo chiedo, non ho ricordi”), e perfino un mezzo capolavoro (“La tappa di Forlì al mio unico Giro d’Italia, quello del 2015: terzo, ma preferisco non rivangare”), mai mettendo i piedi a terra (“Piano, pianissimo, in certe salite al limite del rovesciamento, ma con l’orgoglio di non essermi mai arreso”).
Se prima Malaguti portava borracce, adesso allunga tabelle. Se prima proteggeva dal vento, adesso custodisce sogni. “Non c’è dettaglio, dentro di noi o sopra la bicicletta, che non possa essere migliorato. Prima, e anche adesso, io sono a disposizione”.
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