Solarino, Sicilia, Trofeo Pantalica. La terza corsa dell’anno – il 1977 - dopo il Giro del Mediterraneo (primo, Eddy Merckx) e il Trofeo Laigueglia (primo, Freddy Maertens). Volata per una dozzina di fuggitivi. “Lo sprint è lanciato. Velocità, adrenalina, acido lattico. A 80 metri dall’arrivo una moto della polizia fora una gomma e sbanda, Moser d’istinto devia a sinistra, io, dietro di lui, centro la moto. Senza aspettarmela. Senza difese. Senza casco. Svenimento, coma, ospedale, paura”. Ma qualcos’altro, in quel terribile impatto, forse si spezza, o s’incrina. Un incantesimo, una traiettoria, una carriera. Poi, comunque, trova un compromesso con il destino, recupera la vita e torna al ciclismo, non ne potrebbe proprio fare a meno.
Domenica 21 ottobre, dalle 12.30, nell’Oasi Campagnola di Mareno di Piave (Treviso), Flavio Miozzo, con Roberto Poggiali, riceverà la Borraccia d’oro, il premio alla carriera assegnato dall’Associazione ex ciclisti della provincia di Treviso e riservato a chi ha dato l’anima al ciclismo (tel. 3398080361 e gbisigato@libero.it). E lui, Miozzo, lo ha fatto, da corridore, direttore sportivo, dirigente, con la stessa passione e devozione, da quasi 66 anni.
“Tago di Vigodarzere, vicino a Padova, il Brenta, l’argine, la campagna. Mio padre contadino: un piccolo appezzamento, cinque o sei mucche, un po’ di frumento e mais, il vigneto, l’orto estivo e l’orto invernale. Lo sport era un lusso. Avevamo poco, ci divertivamo con poco. Pallone, come tutti. Poi bici. La prima, artigianale, passava da un ragazzino all’altro, mi costò settemila lire. Mi regalò il senso della natura, il piacere dell’evasione, l’ebbrezza della libertà”.
Quattro anni da dilettante: “E alcune vittorie di prestigio. Il Memorial Fausto Coppi a Castellania, il Giro della Provincia di Pesaro e Urbino, la Targa d’oro a Legnano, il Trofeo Liberazione a Trieste in volata su Mario Beccia, il Giro delle Valli Aretine, il campionato italiano militari davanti a Vittorio Algeri… Per vincere, dovevo arrivare da solo, due o tre al massimo. Il Giro d’Italia con la rappresentativa del Veneto. Passista da percorsi ondulati”. E sei anni da professionista: “Fu Italo Zilioli a seguirmi, prima, e ad accompagnarmi, poi. Due anni nella Vibor, due nella Gis, uno nella Selle San Marco-Sider, l’ultimo nella Metauro Mobili-Pinarello”.
Vittorie, zero. “E pensare che in una tappa della mia prima corsa, il Giro del Mediterraneo, venni ripreso a 50 metri dall’arrivo. Vinse Patrick Sercu. Ero un gregario. Allora le squadre avevano un solo capitano, tutti gli altri erano gregari. E quando i capitani erano due, cominciavano i casini. Fino al 1979 il gregario spingeva: non so se fosse vietato, ma era consentito. Dal 1980 le cose cambiarono: non si spingeva più, ma si tirava. Si tirava in pianura per i velocisti, si tirava in salita per gli uomini di classifica, si tirava sera in certe tappe dolomitiche, ma non si tirava mai a campare. Il più leader? Franco Bitossi, aveva anche la pazienza per insegnarci il mestiere. Il più duro? Wladimiro Panizza, non mollava mai. Il più folle? Roger De Vlaeminck, sapeva improvvisare. Il più agile? Lucien Van Impe, in salita aveva una leggerezza animale. Il più qualitativo? Roberto Visentini, ma se non gli veniva facile, lasciava perdere”. Però dentro e dietro il gruppo, c’erano altre gerarchie: “Il più forte? Renato Laghi. Il più completo? Matteo Tosatto. Il più puntuale? Josef Fuchs, non a caso svizzero. Il più solido? Piotr Ugrumov”.
Smesso di correre per un problema fisico (“Mi si scaldava il piede dentro la scarpa, non riuscivo più a spingere. Avevo già il contratto, ma lasciai perdere. Anni dopo mi fu diagnosticata come una tendinite”), Miozzo tirò il fiato per tre anni, poi si rituffò nel ciclismo come direttore sportivo (“Dagli esordienti ai dilettanti, quindi una ventina di anni fra i professionisti”). Alle sue dipendenze, fra gli altri, anche Chris Froome e Geraint Thomas: “Compagni di camera. In una Vuelta a Asturias, a cronometro, Froome mi stupì con un settimo posto. Neppure il tempo di gioire, e la notizia della morte della madre. Cercai di trovare le parole giuste per consolarlo. Froome era scomposto in pianura e rigido nelle curve. Molto più elegante Thomas, che veniva dalla pista. Qualche numero ce l’avevano, ma erano giovani, e nessuno avrebbe mai immaginato le loro vittorie finali al Tour de France”.
E adesso, questa Borraccia d’oro? “Da dilettante, nella borraccia mettevo acqua e poi un limone, una mela e una banana tritate, e zucchero, e la prendevo da metà corsa in poi. Borracce ne ho ancora, perché continuo ad andare in bici, ho addirittura una borraccia della Sky regalatami da Thomas al Tour of the Alps di un anno fa. Ma una d’oro, chi l’avrebbe mai detto”.
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