Indossano maglie di lana, anche d’estate, quando lo stesso sudore suda da solo, suda da fermo, e anche sotto la pioggia, quando s’impregnano di acqua e la trattengono come se fossero cisterne. Si infilano pantaloncini elasticizzati, dotati di fondello di daino, che se non fosse già morto morirebbe sul colpo, ma che comunque promette di proteggere l’argenteria di famiglia. Vantano caschi di cuoio, a strisce, e sotto i caschi, cappellini con la visiera. Cavalcano bici di acciaio, con cambi suicidi, fili esterni, pedali a gabbiette. Così pedalano e sorridono, senza un apparente perché.
Mangiano e bevono, i rifornimenti trasformati in ristori, niente sacchette ma tavole imbandite, niente barrette ma pane e sopressa o pane e cotoletta o pane e pecorino, niente integratori ma un bel bicchiere di bianco, di rosso o di rosè. Mangiano anche la polvere, che è fango quando piove, che è anche ghiaia, ghiaino, ghiaietto, sassi, sassolini, sassetti, pietre, pietraie, pietrischi, fino a rimanere pietrificati su una salita impossibile per quell’alimentazione, quell’abbigliamento, quell’allenamento, quell’attrezzatura. Così smettono di pedalare e continuano a sorridere, senza un apparente perché.
Tengono famiglia, tengono pazienza, tengono anima e corpo, e non è detto che il corpo sia sempre più grande dell’anima, ma non tengono fretta, perché tengono a mente, e anche nelle gambe, il senso della lentezza, dunque il senso del tempo - domani è un altro giorno, il valzer delle ore, la solitudine dei minuti primi, fuori i secondi -, come se la vita fosse ancora in bianco e nero, come se la radio diffondesse ancora “ma dove vai bellezza in bicicletta”, come se il ciclismo fosse ancora quello eroico o romantico. Però sotto sotto, ma anche sopra sopra, però in fondo in fondo, ma anche davanti davanti, però a mano a mano, ma anche a gambe a gambe, pedalano e sorridono, senza un apparente perché.
Sono gli eroici e i mitici, gli epici e gli stoici, i francescani e i carrarecci, gli intrepidi e i mo serissimi, i medicei e i leonessi, sono i pronipoti del Diavolo Rosso e Petit-Breton, gli epigoni di Malabrocca e Carollo, i ciclisti d’epoca e i ciclostorici, un po’ ciclopici e un po’ ciclonici, certamente ciclomani e ciclopedici, capaci di rendere ciclabili anche le Cicladi, capaci anche di arrendersi alle pendenze, rassegnarsi alla scarsa forza muscolare e all’eccessiva forza gravitazionale, scendere dalla bici e spingerla camminando, arrancando, sbanfando, ma anche sorridendo, senza un apparente perché.
Marco Pasquini è uno di loro. Matto, nel senso fantastico della parola, lo stesso che sopravvive nello scacco matto, nel matto dei tarocchi, perfino nel matto di Fabrizio De Andrè, che cercò di imparare la Treccani a memoria, e dopo maiale, Majakowski e malfatto… Pasquini non solo ha corso e corre le ciclostoriche, ma ne ha anche scritto. “Diario di coppa” (128 pagine, nessuna indicazione di prezzo né di casa editrice, essendo fatto in proprio) è il resoconto delle stagioni ciclistiche 2015, 2016 e 2017 della Coppa Toscana Vintage, ovvero la Leonessa di Pelago, la Medicea di Prato, la Marzocchina di San Giovanni Valdarno, la Panoramica di Settimello di Calenzano, la Chianina di Marciano della Chiana, la Vinaria di Montecarlo di Lucca, con intermezzi in bar e musei, fra grigliate e spettacoli addirittura drive test e premiazioni.
E’ il trionfo degli sterrati e delle ribollite, dei dislivelli e dei chilometraggi, delle albe e dei tramonti, del cavatappi di Campagnolo e dello stufato party, della prosa di Dino Buzzati e della poesia di Alfonso Gatto, di una salita-totem battezzata L’Arrendevole e della Consuma variante spaccagambe, delle frecciature e delle forature, delle tecniche di ballerini solitari o di ubriachi in sella, del vin santo e dei cantucci. Ed è l’atmosfera di Marco Ballestracci, cantore degli dei e delle madonne del ciclismo (da “Imerio” fino al recente “1961”), che firma la prefazione: “Solo alla Coppa Toscana si può respirare ancora ciò che rimane delle grandi sfide dell’epoca d’oro del ciclismo italiano e, talvolta, rinverdire il detto ‘maledetti toscani, che hanno il cielo negli occhi e l’inferno in bocca’”. Magari sorridendo. E senza un apparente perché.